Una vecchia abitudine fra chi si occupa di informatica è di non fare mai aggiornamenti di giovedì sera o di venerdì, che poi c’è il weekend di mezzo e se qualcosa va storto c’è meno tempo per intervenire. Evidentemente questa legge non può valere per i grandi produttori di software, che in effetti fanno piccoli aggiornamenti costanti, di solito senza che gli utenti se ne accorgano.

Se ne sono accorti venerdì 19 luglio, quando Crowdstrike – un sistema di sicurezza che dovrebbe impedire gli attacchi cyber – ha paradossalmente bloccato per qualche ora i sistemi informatici di tutto il mondo: i server di Microsoft, i voli negli aeroporti, le banche e gli ospedali. In Italia i problemi sono stati più limitati, in genere dettati solo dalle conseguenze del caos globale. L’aeroporto di Fiumicino non aveva i sistemi in tilt, ma molti aerei non potevano comunque decollare, a causa dei problemi nelle città di destinazione.

Quello che il mondo ha affrontato ieri è stato “semplicemente” un “bug”, un errore tecnico che è stato risolto nel giro di poche ore, con la “medicina” che poi in poco tempo è stata distribuita anche nei singoli sistemi. Ma, ancora di più, tutti si sono accorti di una potenziale fragilità che gli appassionati di tecnologia già conoscono. Si possono usare mille metafore, dal classico battito d’ali di una farfalla che provoca un uragano dall’altra parte del mondo, fino alla palla di neve che inizia a rotolare trasformandosi in una valanga.

Ma il senso è sempre lo stesso: in un sistema fortemente connesso, e troppo dipendente da pochi grandi colossi, un singolo problema può avere conseguenze disastrose.

L’apocalisse rimandata

In un libro del 2008, intitolato L’apocalisse rimandata (Guanda), Dario Fo immagina che d’improvviso il mondo viva una regressione tecnologica. In ogni città non funzionano più le lampadine, i frigoriferi, non ci sono più caffè nei bar o benzina nelle pompe. Crollano banche e assicurazioni, pure il denaro non ha più valore, si usano solo le biciclette e l’energia prodotta dal sole. Le città si svuotano e si riempiono le campagne.

Nel suo stile paradossale, Fo sostiene che il nuovo mondo senza tecnologia non è poi tanto male. Al di là della finzione letteraria, e con tutte le proporzioni del caso, quello che abbiamo vissuto ieri è stato esattamente un assaggio di “apocalisse rimandata”.

Singole attività che normalmente immaginiamo come scollegate – i trasporti, il sistema sanitario, i canali televisivi e le linee d’emergenza – hanno iniziato all’improvviso a non funzionare più, tutte nello stesso momento e a livello globale. Dal punto di vista tecnico il motivo era facilmente spiegabile: Crowdstrike da sola ha migliaia di clienti in tutto il mondo e soprattutto ha una piattaforma che deve essere particolarmente invasiva per permettere di intercettare le minacce informatiche. Il legame con Microsoft, l’azienda che produce il sistema operativo più utilizzato al mondo, ha fatto il resto.

Dal punto di vista filosofico, invece, la questione ha sollevato dubbi maggiori: e se dovesse succedere di nuovo? E se in futuro il problema fosse più grosso ancora, più difficile da risolvere, e con conseguenze persino peggiori?

Prepararsi al crollo

Quello di ieri è stato probabilmente il più importante disastro informatico della storia recente, ma soprattutto ha reso più popolari questioni che fra gli addetti ai lavori si dibattono da decenni. Almeno dai tempi del cosiddetto “Millennium bug”, quando si temeva che allo scoccare del primo gennaio del Duemila potessero saltare i sistemi informatici di tutto il mondo. In quel caso l’allarme fu effettivamente superiore alle reali conseguenze, ma l’allora presidente di Microsoft, Bill Gates, disse alla Cnn che ci si doveva aspettare che problemi simili si sarebbero ripresentati in futuro.

Durante la pandemia ci siamo accorti che un fatto inaspettato può all’improvviso sconvolgere il nostro mondo. E se succedesse lo stesso per colpa della tecnologia?

Nel 2021 la giornalista spagnola Esther Paniagua ha scritto Error 404 (Einaudi), un libro in cui sostiene che l’esistenza di Internet non debba essere data per scontata. Il problema è che oggi soffriamo il peccato originale del nostro sviluppo digitale, costruito sulla dipendenza da pochi colossi digitali.

In caso di una grossa crisi, come ad esempio un attacco informatico, un black out di Internet o della rete elettrica, o appunto una “bug”, l’intera infrastruttura pubblica digitalizzata sarebbe nelle mani di pochi attori privati. Siamo davvero disposti a fidarci? E se quello di ieri fosse stato solo l’assaggio di un’apocalisse rimandata?

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