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Il 3 aprile in Serbia si terranno le elezioni presidenziali, parlamentari e municipali. Lo sfidante del presidente Aleksandar Vucic è Zdravko Ponos, generale dell’esercito che sembra aver compattato l’opposizione.
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La Serbia è sempre più in bilico geopolitico tra Unione Europea e Russia: ha condannato l’invasione dell’Ucraina ma si rifiuta di sanzionare Mosca. Stare con un piede in due scarpe potrebbe presto diventare scomodo.
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La deriva autoritaria da quando Vucic è al potere sembra ormai irreversibile. L’erosione dello stato di diritto in Serbia è avvenuta con la complicità dell’Ue, che considera Belgrado un capofila nel processo di integrazione nei Balcani
Un corteo che si snoda per le vie del centro portando un lungo tricolore russo, e le famigerate “Z”. Lo scorso 4 marzo, Belgrado è diventata l’unica capitale europea ad ospitare una protesta in supporto alla Russia. L’indomani ne è prontamente seguita una di segno opposto, di solidarietà al popolo ucraino. Questa è una delle tante immagini manichee che descrivono la Serbia degli ultimi anni, sempre più rassomigliante all’aquila bicefala della sua bandiera, con una testa che guarda l’Unione europea, l’altra la Russia di Vladimir Putin. Una oscillazione tra adesione ai valori europei e fedeltà all’alleanza con Mosca, ma anche tra una maschera di democrazia e un’inarrestabile deriva autoritaria.
Il candidato giusto
La Serbia di Aleksandar Vucic è così da almeno dieci anni, quando il Partito progressista vinse le elezioni interrompendo l’esperienza dei democratici che rovesciarono Slobodan Milosevic. Il prossimo 3 aprile, i cittadini serbi saranno chiamati ai seggi per le parlamentari e le municipali di Belgrado, ma soprattutto per rinnovare o meno il mandato al presidente Vucic, che in questi dieci anni ha scalato i vertici del paese, facendone precipitare gli standard democratici.
Questa volta, però, l’opposizione sembra più compatta, almeno nella scelta del rivale: Zdravko Ponos. Generale dell’esercito ed ex capo di stato maggiore, Ponos è una figura apartitica che ha unito le principali sigle della galassia dell’opposizione serba.
È un uomo di stato, in grado quindi di far recuperare quella fiducia svanita verso le istituzioni; non ha esperienze di governo, e non può essere accusato di passate malversazioni; ma soprattutto incarna, forse meglio di Vucic, lo spirito nazional-conservatore che piace alla maggioranza dell’elettorato serbo.
Il presidente ha rifiutato il duello in tv con lui, stabilendo un record: dieci anni senza alcun confronto o dibattito pubblico con un rappresentante dell’opposizione. Che Vucic tema il suo avversario lo si evince anche dal comportamento dei tabloid filogovernativi.
Da quando Ponos ha ufficializzato la sua candidatura, i media di regime l’hanno etichettato come “il candidato dei croati”, ma soprattutto “il generale della Nato”, cercando quindi di presentarlo come un nemico del popolo.
La campagna elettorale in Serbia si sta infatti giocando molto su alcune questioni nazionali, nonché sul ruolo della Nato, che ventitré anni fa bombardò il paese, riproponendo il decennale dilemma dell’allineamento internazionale di Belgrado, che l’attuale guerra in Ucraina non ha fatto che esacerbare.
Tra Bruxelles e Mosca
L’invasione russa dell’Ucraina ha messo la Serbia in una posizione geopolitica scomoda. Il governo di Belgrado ha aderito al blocco di paesi che il 2 marzo all’assemblea generale dell’Onu hanno votato la condanna dell’impresa bellica di Putin, ma non ha imposto sanzioni a Mosca né ha chiuso lo spazio aereo a velivoli russi.
Per Vucic, allinearsi alle sanzioni occidentali contro la Russia è problematico per due motivi. Innanzitutto, perché Mosca è l’ultima ancora di salvezza contro l’indipendenza del Kosovo, ma soprattutto perché il filorussismo è un enorme bagaglio politico che sposta migliaia di voti.
È questo il timore principale di Vucic: perdere il sostegno dei putinisti in favore dell’opposizione, che è ideologicamente eterogenea e include molti nazionalisti. Progressista solo nel nome, il partito di Vucic è privo di ideologie tradizionali ed è pigliatutto per antonomasia.
Mentre ufficialmente l’Unione europea resta il primo obiettivo di politica estera del governo, il Partito progressista serbo (Sns) ha successo anche grazie alla retorica sulla fratellanza ortodossa che lega la Serbia alla Russia.
Sns nacque nel 2008 proprio con questa premessa: una scissione dai Radicali ultra nazionalisti, allora primo partito d’opposizione, per sostenere l’inizio del processo di avvicinamento all’Ue, ma conservando un approccio politico con cui si sono posti a difesa degli interessi nazionali. E questi, oggi, sono racchiusi per lo più nella questione del Kosovo, l’ex provincia serba che Belgrado si rifiuta di riconoscere.
Il seggio permanente al consiglio di sicurezza all’Onu della Russia è l’unica garanzia rimasta alla Serbia, che può così usufruire dei blocchi diplomatici degli amici di Mosca per ostacolare l’adesione di Pristina a nuove organizzazioni internazionali.
È quello che accadde, ad esempio, nel 2018, quando la maggioranza dei paesi membri dell’Interpol votò contro l’inclusione del Kosovo, facendo poi precipitare quel processo di normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina mediato da Bruxelles.
Per la Serbia, il ruolo della Russia si svolge infatti all’ombra di quello dell’Ue, contro cui Mosca non può competere alla pari. Mentre i paesi membri dell’Ue rappresentano i principali partner commerciali della Serbia, la Russia può offrire un canale privilegiato solo nel settore energetico.
Belgrado dipende infatti quasi totalmente dal gas russo – distribuito attraverso l’Industria Petrolifera serba (Nis), di proprietà Gazprom al 56,5 per cento – che paga ad uno dei prezzi più bassi d’Europa: 270 dollari per mille metri cubi di gas. I trattamenti vantaggiosi potrebbero però cambiare qualora i pacchetti sanzionatori dell’Occidente riguardassero anche le importazioni di gas, che per la Serbia arrivano attraverso due paesi membri dell’Ue: Ungheria e Bulgaria.
Inoltre, la recente decisione della Russia di far pagare il gas che arriva in occidente in rubli potrebbe essere un grosso problema per la Serbia, alla quale però Mosca dice di voler offrire garanzie.
Il punto di non ritorno
Ma dalla Russia la Serbia importa massicciamente anche il suo modello politico autocratico. Negli anni in cui Vucic è passato da vicepremier a primo ministro, quindi presidente, il paese è diventato un regime ibrido, in cui non esiste più un pluralismo politico, lo stato di diritto è stato ingabbiato dal partito di governo e la libertà di stampa è stata soffocata.
E questo è avvenuto sotto gli occhi dell’Unione europea, che nel 2018 elesse il paese a “frontrunner” nel processo di integrazione dei Balcani. Un titolo simbolico, ma che mostra che quello di Bruxelles è stato puro strabismo politico, nell’incapacità di sostenere la salvaguardia degli standard democratici come precondizione del processo di adesione.
L’attuale composizione del parlamento serbo è frutto delle elezioni del giugno 2020, quando solo tre partiti nazionali passarono la soglia di sbarramento. Complice l’allora boicottaggio dei principali partiti d’opposizione, i deputati che da un anno e mezzo sostengono l’esecutivo sono 244 su 250: un parlamento monocromatico tipico dei regimi a partito unico.
Un punto di non ritorno per la democrazia serba, che oggi ricorda il regime di Milosevic ma che rispetto ad allora gode del supporto di Bruxelles. Analizzata più da vicino, la deriva autoritaria di Vucic è stata possibile grazie a un controllo capillare sull’economia e sulle istituzioni, assistita da una stampa filo governativa che per anni ha annichilito l’opposizione.
La cattura degli elementi dello stato di diritto e dei segmenti economici del paese è avvenuta attraverso le strutture di partito: un esercito di militanti che determina l’attuale governance serba. Stando ad alcune stime, Sns conta su oltre 750mila iscritti, un cittadino su nove: una proporzione che supera gli iscritti al Partito comunista cinese (un cittadino su 15) o di Russia Unita (uno su 70) e che, rapportati alle affluenze degli ultimi anni, in termini elettorali assicura almeno il 24 per cento dei voti.
Soprattutto, l’iscrizione al partito permette di veicolare il supporto a livello locale, dove l’occupazione viene garantita con la fedeltà al governo, rappresentato da management che gestiscono le poche risorse economiche nelle periferie del paese.
La cattura delle istituzioni, inoltre, è stata possibile anche grazie alla complicità della criminalità organizzata. Nell’ultimo anno, per esempio, diverse inchieste hanno rivelato come alcuni esponenti del tifo organizzato agissero su procura del governo, che si è così garantito il controllo sulle frange più violente della società serba, richiedendo loro svariati servizi d’ordine pubblico.
Un’azione che mina direttamente l’autonomia del potere esecutivo delle forze di polizia e che ha reso più fragili e ricattabili gli stessi vertici statali. Oggi, la linea di confine tra élite di governo e criminali è totalmente opacizzata e la commistione tra i due gruppi è alla base del funzionamento dello stato.
I Balcani come prossimo fronte?
Queste elezioni, infine, saranno di cruciale importanza anche per il destino della regione. Da anni la Serbia si presenta all’Ue come garante di pace e stabilità – e non è un caso che le due parole compaiano nello slogan elettorale di Vucic – salvo poi fomentare i nazionalisti dei Balcani nel nome del cosiddetto “mondo serbo”, cioè una versione moderna della “grande Serbia”.
I riferimenti principali sono al membro serbo della presidenza tripartita della Bosnia, Milorad Dodik, il cui etno nazionalismo ha portato il paese a vivere “il momento più difficile dal dopoguerra”. Dodik è una delle principali pedine di Belgrado, da cui prende in prestito anche gli stretti rapporti con Mosca, e rappresenta quel germe dell’instabilità istituzionale bosniaca che sarà difficile da debellare.
Ma l’allerta resta alta anche in Kosovo, dove il contingente Kfor dovrebbe scongiurare uno scenario ucraino, e su cui – come allerta il premier Albin Kurti – la Serbia estende “i propri tentacoli” affinché la tensione inter etnica resti alta: il muro contro muro tra serbi e albanesi aiuta infatti gli opposti schieramenti.
Da quando è iniziata la guerra in Ucraina, l’Ue ha raddoppiato i propri contingenti sia in Bosnia (Eufor) che Kosovo (Eulex): ufficialmente una precauzione, ma dal retrogusto di deterrente contro future escalation. Difficile immaginare un effetto spillover della guerra ucraina nei Balcani, molto più facile prevedere che la regione continui ad essere geopoliticamente instabile. Molto dipenderà proprio dal 3 aprile, una data che potrebbe segnare uno spartiacque non solo per la Serbia, ma per tutta la regione.
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