Quella delle elezioni negli Stati Uniti è sempre stata anche la storia del voto delle minoranze: dagli inizi drammatici di fine Ottocento, quando gli schiavi non potevano esprimersi, fino al Voting Rights Act del 1965 che ha finalmente reso illegale ogni discriminazione per il voto.

Da lì in poi, capire come votano le minoranze è parte del grande racconto che porta alla notte elettorale: richiede spesso una semplificazione e il compromesso di accettare come validi i sondaggi. Ma è comunque un buon modo per dare un ritratto di ciò che potrebbe succedere ai seggi, e di come già si stanno orientando le opinioni e le promesse dei comizi.

Ovviamente non bisogna dimenticare la maggioranza bianca, che ha ancora un peso decisivo. Anzi, l'intero sistema elettorale (con il maggioritario e i grandi elettori) sembra costruito storicamente per favorire gli stati in cui questa componente è particolarmente influente.

Ma anche questo aspetto deve tenere conto di altre considerazioni: le minoranze non sono soltanto etniche, ma possono essere anagrafiche, di statuto sociale, di genere, di orientamento politico o sessuale (e in questo senso sono per loro natura trasversali).

Eppure ha senso anche limitarsi alla questione etnica (come facciamo qui), che abbraccia ovviamente la grande questione razziale: ovvero, quel grande insieme di pregiudizi e atti che negli Stati Uniti non è solo storia, ma anche cronaca. Come sappiamo bene da Black lives matter.

Cambiamenti

Tutto questo si collega ovviamente anche alla questione demografica e al fatto che la minoranza bianca (non ispanica) è percentualmente in diminuzione. Questo porta anche a una strenua resistenza conservatrice, che si alimenta nella parte più paranoica della politica americana: nell’idea ovvero che ci sia una sostituzione in atto a cui ribellarsi, per non perdere i privilegi che avevano «reso grande» l’America.

Le teorie più estremiste hanno una buona presa su una parte dell’elettorato più conservatore, anziano e bianco. E anche alcune teorie apparentemente bizzarre, come la bufala degli immigrati che a Springfield, in Ohio, si ciberebbero di gatti. Una teoria sostenuta da Trump nel dibattito contro Harris. O, ancora, l’idea che gli immigrati senza documenti stiano «avvelenando il sangue» degli americani.

Negli ultimi giorni Trump ha poi abbandonato qualsiasi timido tentativo di moderazione, parlando apertamente di una nazione che è diventata «la spazzatura del mondo» proprio per le politiche di immigrazione dei democratici. Il comico Tony Hinchcliffe, sul palco di un comizio di Trump, ha definito Porto Rico «un’isola galleggiante di spazzatura».

Allo stesso tempo però le minoranze etniche hanno paradossalmente iniziato a diversificarsi sempre di più: anche nella comunità afroamericana c’è chi non vota più per i democratici (anche se ovviamente è una minoranza della minoranza). Il discorso si complica ulteriormente per i latinos e gli ispanici, originari del centro e sud America. Nel 2020 solo il 63 per cento di questo gruppo ha preferito Biden a Trump.

Perché votano Trump

Ma dunque, perché alcuni di loro dovrebbero votare ancora per Trump, nonostante la retorica xenofoba? È una domanda che si è posto anche il New York Times, in un articolo di Nate Cohn, giornalista esperto di dati e analisi politiche. La risposta non è però univoca: secondo Cohn, ci sono un insieme di fattori che concorrono, nessuno dei quali è probabilmente decisivo. Vediamone alcuni.

Il primo fattore, forse il più sorprendente, è che una parte di questi elettori semplicemente approva alcune idee di Trump anche in tema di immigrazione: anche nella comunità latino-americana c’è chi è favorevole alla costruzione di un muro sul confine con il Messico. Inoltre, c’è consenso sui temi della sicurezza e sulla retorica dell’America first, che si concretizza nell’approccio adottato in politica estera.

In altre parole, ci sono questioni che superano anche il pregiudizio razzista, quasi che la portata demagogica riuscisse comunque a fare breccia. È anche un segno di come alcuni elettori, soprattutto fra gli ispanici, siano sempre più integrati e dunque interessati ad altri temi rispetto a quelli più strettamente etnici.

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Il secondo fattore è che non tutti si offendono per le sparate di Trump. Anzi, fra gli afroamericani c’è un 20 per cento che ritiene che non dovrebbe essere preso troppo seriamente, stando ai sondaggi citati dal New York Times. C’è chi si spaventa e semplicemente chi lo trova divertente.

L’aspetto fondamentale è però probabilmente un altro: l’economia. E non tanto la macroeconomia, ma la questione molto più circoscritta del potere d’acquisto che si è molto ridotto per colpa dell’inflazione. Gli elettori “economicamente vulnerabili” possono sentirsi traditi dai democratici, che non hanno interpretato il loro desiderio di rivalsa, come avevano invece promesso.

Le disuguaglianze ci sono ancora, anzi si sono talvolta anche allargate. C’è chi pensa che Trump, un ultra-miliardario, non possa rappresentare la soluzione, ma anzi sia espressione del problema. Ma c’è anche chi crede, al contrario, che come è riuscito ad arricchirsi, così riuscirà a rendere più ricca la nazione. È un tipo di retorica che in Italia conosciamo molto bene e che si avvantaggia anche dell’alleanza con Elon Musk.

Latino americani

Nel 2024, 36,2 milioni di latinos hanno diritto di voto (ovvero, sono cittadini adulti degli Stati Uniti), con un aumento di 4 milioni rispetto al 2020. Sono più del doppio rispetto ai 14,3 milioni di elettori che avevano diritto nel 2000. Sono dunque la più grande minoranza del paese e sono costantemente in crescita. Ci sono anzi stati (come la California, il Texas e il New Mexico) dove sono già il gruppo etnico più numeroso, senza considerare poi alcune contee (come Miami-Dade) dove sono già la maggioranza assoluta.

Secondo un’indagine di fine settembre del centro di ricerca Pew, le dinamiche che influenzano il voto degli ispanici sembrano ricalcare quelle del 2020. È ancora preminente l’interesse per l’economia (85 per cento), seguito poi da sanità (71 per cento), criminalità violenta (62 per cento), politiche sulle armi (62 per cento), immigrazione (59 per cento) e nomine alla Corte Suprema (58 per cento).

L'80 per cento degli elettori ispanici sostiene di essere molto preoccupato per il prezzo del cibo e dei beni di consumo. Il 77 per cento dichiara di essere molto preoccupato per il costo delle abitazioni, rispetto al 71 per cento del 2022. Il 46 per cento afferma di essere molto preoccupato per la possibilità di trovare un impiego, rispetto al 36 per cento del 2022.

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In un contesto di grande incertezza, il voto degli ispanici diventa dunque particolarmente importante, soprattutto negli stati in bilico. È il caso ad esempio della Pennsylvania, che assegna 19 grandi elettori e dove, secondo i sondaggi, i due candidati sono praticamente appaiati. Come ha sottolineato Vox, esiste una percentuale non inconsistente di elettori portoricani che potrebbero non aver gradito gli insulti di Hinchcliffe. Anche a loro si è rivolta Jennifer Lopez, schierandosi a favore di Kamala Harris.

In generale, gli ispanici rappresentano una quota significativa di voti in tutti e sette gli stati in bilico, in particolare in Arizona (assegna 11 grandi elettori) e Nevada (6 grandi elettori).

Afroamericani

Passando agli afroamericani, seconda minoranza più ampia, la tentazione è di immaginare anche in questo caso una dinamica simile: la fine di un sostegno incondizionato per i democratici, a favore di distinguo sempre maggiori. È indubbio che per Kamala Harris sarà praticamente impossibile ottenere gli stessi risultati di Barack Obama, quando nel 2012 è stato votato dal 97 per cento degli appartenenti a questa minoranza.

Allo stesso tempo, Annie Duke – esperta in scienze cognitive – ha scritto sul Washington Post di non sopravvalutare però l’influsso di questa novità su quello che potrebbe essere il risultato finale. Innanzitutto, perché l’elettorato nero rappresenta una minoranza meno significativa negli stati in bilico. La percentuale di voti che Kamala Harris ha guadagnato nell’elettorato bianco non istruito potrebbe ragionevolmente avere un peso maggiore rispetto a quelli che ha perso fra gli afroamericani.

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In questo caso, l’indagine più recente del centro di ricerca Pew è di fine agosto, quando ancora Robert F. Kennedy Jr. era in corsa, e certificava che attorno al 77 per cento degli elettori neri erano determinati a votare Harris. La percentuale è in realtà più alta fra gli elettori più anziani e più bassa fra quelli più giovani, dando l’idea che il cambiamento possa seguire dinamiche simile a quelle che abbiamo già sottolineato: una maggiore integrazione porterebbe paradossalmente ad accettare anche politiche di destra, in nome di altre questioni che vengono sentite come prioritarie.

Un’altra ricerca del medesimo istituto, di fine settembre, stimava però come il supporto afroamericano stesse aumentando (intorno all’84 per cento), in coincidenza con il progredire della campagna elettorale. Anche se i temi economici sono anche in questo caso prioritari per l’orientamento del voto, c’è un riconoscimento maggiore che la vittoria di Trump rappresenterebbe un danno per i cittadini che fanno parte di questo gruppo etnico.

La complessità

Tirando un poco le somme, in una competizione elettorale così serrata, concentrarsi un poco sulle minoranze aiuta a comprendere la complessità delle dinamiche in atto. È un metodo che può essere utile poi per capire in generale la storia di queste elezioni.

E così si potrà fare anche nei giorni successivi al voto, quando finalmente non ci si accontenterà più dei sondaggi e delle tendenze, ma ci saranno risultati da commentare. Le elezioni sono come uno specchio in cui si riflettono i cambiamenti della società americana. La sfida non è solo interpretare i dati e le tendenze, ma anche guardare in quel riflesso per cogliere i mutamenti reali, superando i preconcetti su ciò che ci aspetteremmo di vedere.

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