Il presidente turco ha usato toni duri contro il premier israeliano, ma i rapporti tra i due paesi non sono cambiati. A beneficiare delle relazioni economiche tra Ankara e Tel Aviv sono i fedelissimi di Erdogan e suo figlio.
«Benjamin Netanyahu sarà processato come criminale di guerra», «Quello che fa il premier israeliano non è da meno rispetto a quello che ha fatto Adolf Hitler», sono solo alcune delle accuse lanciate dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan nelle ultime settimane contro il primo ministro israeliano. La retorica incendiaria utilizzata dal capo di Stato turco dall’inizio di ottobre però è solo propaganda, come già successo in passato. Soprattutto nel momento in cui la Turchia continua a esportare verso Israele armi e loro componenti, contribuendo a rafforzare le capacità belliche del suo “nemico”.
Numeri e propaganda
Fin dall’inizio dell’operazione israeliana contro Gaza, il presidente turco si è presentato come il massimo difensore della causa palestinese, arrivando a definire Israele uno Stato terrorista e chiedendo l’apertura di un processo per crimini di guerra contro il primo ministro Netanyahu. Erdogan e i membri del suo partito, l’Akp, hanno anche invitato i cittadini turchi a boicottare i prodotti israeliani e le grandi catene che sostengono lo Stato ebraico, ma hanno fatto ben poco per interrompere le relazioni commerciali con Israele. Come si evince dai dati dell’istituto nazionale di statistica Tuik, i rapporti tra i due paesi non hanno subito alcun arresto dall’inizio dell’operazione israeliana contro Gaza e la Turchia ha persino continuato a vendere al suo “nemico” materiale militare, rafforzando di fatto le capacità belliche di Israele.
D’altronde interrompere le relazioni economiche con lo Stato ebraico sarebbe un duro colpo per gli imprenditori più vicini al presidente, gli stessi che hanno continuato a guadagnare da questo commercio anche nei mesi successivi a ottobre 2023. A smascherare il doppiogiochismo di Erdogan e dei suoi fedelissimi è stato il giornalista turco Metin Cihan grazie all’analisi delle rotte navali e aree in uscita dalla Turchia. Tra i personaggi importanti implicati nel commercio con Israele ci sono Vehbi Koç, parlamentare dell’Akp, Erkam Yildirim, figlio dell’ex primo ministro Binali Yildirim, e persino Burak Erdogan, figlio dell’attuale presidente. Ma non è tutto. Le navi dirette verso Israele in molti casi sono partite dall’ex porto statale di Iskenderun finito nelle mani della Limak Holding, uno dei cinque grandi conglomerati notoriamente vicini al presidente Erdogan e che hanno vinto la maggior parte degli appalti pubblici negli ultimi anni.
Tra i prodotti trasportati via mare verso Israele, ha specificato Cihan, c’è anche il petrolio. Grazie al sito MarineTraffic, il giornalista ha scoperto che alcune navi riportanti l’Egitto come destinazione finale si sono invece dirette verso lo stato ebraico. Tel Aviv d’altronde importa il 40 percento del petrolio di cui ha bisogno dall’Azerbaijan grazie all’oleodotto che da Baku arriva nel porto turco di Ceyhan.
La rottura dei rapporti economici, dunque, sarebbe una brutta notizia anche per Israele. La Turchia è il quinto paese per valore dell’import ed è tra i primi paesi da cui acquista l’acciaio, materiale fondamentale per l’industria militare.
Nel 2022 Israele ha importato più di due milioni di tonnellate di acciaio da Ankara, il 9 percento in più rispetto all’anno precedente, segno di un costante aumento dell’interdipendenza economica tra i due stati. A beneficiare di questo commercio è soprattutto la Içdas, un’altra delle aziende vicine al presidente e coinvolta nei maggiori progetti energetici del paese, recentemente premiata anche per l’impegno nel costruire moschee.
Amici-nemici
Il doppiogiochismo di Erdogan non è certo una novità. Già durante il suo primo mandato, iniziato nel 2002 quando era in corso la Seconda Intifada, l’allora primo ministro turco aveva accusato Israele di terrorismo e rifiutato di incontrare il suo omologo Ariel Sharon. In quegli stessi anni, però, l’export turco verso Israele è più che raddoppiato ed è ulteriormente cresciuto una volta terminata la Seconda Intifada. Nemmeno l’incidente della Freedom Florilla del 2010 è stato in grado di mettere fine ai rapporti tra Israele e Turchia, nonostante la morte di otto cittadini turchi che, insieme ad altri attivisti, stavano cercando di rompere il blocco navale imposto da Israele contro Gaza. L’incidente aveva portato al richiamo in patria dei rispettivi ambasciatori, ma negli anni seguenti l’export tra Israele e Turchia ha continuato a crescere, tanto da raggiungere un nuovo record nel 2013.
Negli anni successivi il copione è stato sempre lo stesso: all’aumentare delle accuse, crescevano le relazioni economiche tra i due paesi. Solo nel 2022 Erdogan e Netanyahu hanno fatto dei passi in avanti per ricucire anche i rapporti diplomatici, ma l’operazione contro Gaza ha messo in pausa il processo di riconciliazione. Senza intaccare le relazioni commerciali, né la vendita di quei prodotti che hanno aiutato Israele a lanciare e portare avanti quella stessa operazione che adesso Erdogan condanna a gran voce.
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