In Cile l’Ivg è legale solo nei casi di stupro, pericolo per la vita della donna, patologie incompatibili con la vita. Le acompañantes sono attiviste che procurano farmaci o accompagnano chi ne ha bisogno ad abortire
Micaela ha 30 anni ed è seduta su una panchina nel centro di Santiago del Cile. È un pomeriggio soleggiato di ottobre, lei parla velocemente e gesticola. È una ragazza qualsiasi, minuta e con un bel viso. Però Micaela non è una ragazza qualsiasi e cambia nome una volta al mese: è stata Rita, Maria, Patricia e molte altre. Micaela è una “acompañante”, aiuta altre donne ad abortire in un paese – il Cile – dove interrompere una gravidanza è illegale.
Chi lo fa rischia fino a cinque anni di prigione e così, per proteggersi, le acompañantes usano sempre nomi falsi con le donne che aiutano ad abortire. Sono centinaia di attiviste in tutto il paese, disposte a mettere a rischio la propria incolumità per aiutare altre donne. Perché, come spiega Micaela: «Prendersi cura l’una dell’altra è un’azione politica».
In Cile l’aborto è stato legale fino a quando nel 1989 la dittatura di Augusto Pinochet lo ha reso assolutamente illegale. Dal 2017 è consentito solamente in tre casi: se la donna è stata stuprata, se la sua vita o il feto sono in pericolo. Ma lo scorso 1º giugno il presidente progressista Gabriel Boric ha annunciato che a dicembre verrà presentato dal suo governo un progetto di legge per legalizzare l’aborto in qualsiasi caso: è la prima volta che si presenta questa possibilità dal ritorno della democrazia.
Il lavoro delle acompañantes
Se il progetto di legge dovesse passare, il diritto di interrompere una gravidanza non desiderata verrà garantito in tutto il paese, ma fino ad allora ad aiutare le donne che vogliono abortire ci sono solo le acompañantes. Micaela fa parte dal 2018 di “Con amigas y en la casa”, il più grande gruppo di “aborteras” cileno che è composto da un centinaio di attiviste lesbiche e femministe presenti in tutto il paese. I numeri sono impressionanti: solo nel 2023 hanno aiutato almeno 10mila donne ad interrompere la propria gravidanza e dall’anno della loro fondazione, 2016, ne hanno aiutate oltre 50mila.
Chi ha bisogno della rete, trova tutte le informazioni online e sulle loro pagine social. Si può scrivere una mail o contattarle tramite Whatsapp. Dal momento in cui vengono contattate, ogni persona viene affidata a un’attivista che assisterà il processo dall’inizio alla fine e rimarrà sempre in contatto con la persona che le ha contattate. Con lei si fa un primo colloquio per capire quale sia la situazione, si richiede l’invio dell’ecografia e poi si partecipa a un laboratorio collettivo in cui le attiviste si riuniscono con le donne che hanno deciso di abortire e spiegano loro come avverrà tutto il processo.
«È un momento di fiducia reciproca perché noi mettiamo la nostra sicurezza nelle loro mani, durante i laboratori mostriamo i nostri visi alle donne che aiutiamo e se volessero potrebbero fotografarci e denunciarci», racconta Micaela.
La rete realizza esclusivamente interruzioni di gravidanza effettuate con la pillola abortiva. Normalmente le consegnano di persona, ma ci sono casi in cui la pillola viene spedita per posta. Come spiega Micaela: «I casi più difficili sono quelli di donne che vivono in zone molto rurali o marginalizzate. Generalmente lì le famiglie sono molto conservatrici e chi ci contatta deve fare tutto in segreto. Per noi raggiungerle sarebbe molto difficile e per loro andare nella città più vicina senza insospettire i familiari sarebbe impossibile. Quindi mandiamo loro la pillola per posta».
Quando vengono contattate da una donna che ha una gravidanza troppo avanzata per poter effettuare l’aborto con la pillola (l’Oms raccomanda la 17esima settimana come limite massimo), la rete le finanzia un viaggio in Argentina o in Colombia, dove l’aborto è legale.
«Chiediamo un piccolo contributo volontario alle donne che aiutiamo», continua Micaela: «Ovviamente se non possono non c’è problema e non lo chiediamo mai alle minori e alle vittime di violenza. Però con quei contributi riusciamo a finanziare i viaggi per le gravidanze più avanzate». I medicinali invece vengono garantiti alla rete da associazioni femministe internazionali che le inviano segretamente in Cile. «Noi riusciamo a fare tutto questo perché siamo accompagnate da molte reti femministe internazionali che non ci lasciano sole. Essere femministe è anche questo: non essere mai lasciate sole», dice Micaela.
La clandestinità
«La criminalizzazione dell’aborto non porta le donne a non abortire, ma le costringe a farlo in situazioni molto pericolose per loro stesse e per la loro salute», dichiara Estefanny Molina Martínez, 33 anni, dell’associazione femminista Women’s Link Worldwide che opera in America Latina, Africa ed Europa.
Ogni anno in Cile vengono effettuati dai 30mila ai 150mila aborti clandestini, secondo i dati forniti dal governo e le donne che si rivolgono al mercato nero per comprare la pillola abortiva possono arrivare a pagarla perfino 200 dollari. «Il fatto che in Cile si possa interrompere una gravidanza in tre casi non è assolutamente sufficiente, è necessario che venga legalizzato totalmente e serve che venga fatto al più presto», assicura Martínez.
Diritto negato
Ma anche per le donne che rientrano in uno dei tre casi in cui l’aborto è legalmente permesso, accedervi non è sempre facile. Molto spesso i medici si rifiutano di farlo, le mandano via in malo modo o le mortificano. Per aiutarle nel 2018 è nata in Cile “Ola – Observadoras Ley de Aborto”, una rete di attiviste lesbiche e femministe. «Prima eravamo acompañantes, ma poi ci siamo rese conto che molte donne ci contattavano perché – pur rientrando in uno dei tre casi permessi dalla legge – in ospedale non le ricevevano. E quindi abbiamo capito che dovevamo aiutarle anche su questo fronte», spiega Francisca, 35 anni, portavoce di Ola.
Solo nel 2023 le attiviste di Ola sono state contattate da 3mila donne, 906 delle quali rientravano nei tre casi previsti dalla legge (in 442 la vita della donna era in pericolo, in 28 era a rischio il feto e in 436 la maternità era frutto di stupro), ma il dato più allarmante è che solo 220 (il 24 per cento) ha deciso di recarsi all’ospedale per richiedere l’interruzione della gravidanza.
E fra queste riesce a abortire solo il 68 per cento. «La maggior parte delle donne sono terrorizzate dall’idea di andare in ospedale ed essere giudicate o trattate male. Ricevere il rifiuto da un’istituzione che dovrebbe aiutarti, dopo che hai esposto un fatto così intimo e privato, è devastante», dice Francisca. «Molte volte per fortuna va bene, ma abbiamo avuto tanti casi in cui i medici rispondevano: “No, non possiamo farlo. L’aborto non esiste in Cile”».
Il 10 per cento delle donne che contattano Ola sono minori di età, alcune di 12 o 13 anni, e molte sono state vittime di stupro. «In questi anni abbiamo seguito diversi casi di bambine che sono state costrette a partorire», testimonia Francisca. Anche le attiviste di Ola possono essere contattate per mail o Whatsapp e hanno anche una linea telefonica diretta aperta sette ore al giorno.
«Tutti i giorni seguiamo almeno una donna che va in ospedale per abortire», sostiene Francisca, «per me è incredibile pensare che i politici di destra in Cile sostengano che le donne debbano essere obbligate a partorire il figlio frutto di uno stupro. Ma d’altronde l’aborto è politico, è un diritto delle donne e cosa c’è ancora oggi di più controverso del diritto delle donne di essere autonome e indipendenti?».
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