Quattro i punti sostanziali del discorso che il presidente ha tenuto al Congresso: il pieno sostegno all’azione del dipartimento guidato dal patron di SpaceX, l’attacco al “wokismo”, i toni più concilianti nei confronti di Zelensky in cambio dell’accordo sui minerali, il rilancio sui dazi. Con un messaggio per l’Europa: abbandoni l’idea di regolare i big tech
È stato, quello di Donald Trump, il consueto comizio più che il discorso istituzionale che la sede e il contesto in realtà imporrebbero. In un quadro di apparente e inarrestabile degrado e imbarbarimento del confronto politico e pubblico, il presidente non ha mancato d’irridere e insultare gli avversari politici, usando i consueti toni apocalittici e celebrando i risultati già ottenuti in poche settimane di presidenza («in 43 giorni abbiamo realizzato più di quanto la maggior parte delle amministrazioni realizzi in quattro anni o otto anni, e siamo solo all'inizio», ha sostenuto).
Al netto di tutto ciò, quattro sembrano essere gli aspetti più rilevanti di questo discorso e di quel che esso ci indica rispetto a cosa aspettarci per le settimane e i mesi a venire. Il primo è il pieno sostegno all’azione di Elon Musk e del suo dipartimento per l’Efficienza governativa, il Doge.
Stando ai dati dei sondaggi e alle impressioni degli incontri dei rappresentanti e senatori repubblicani con i loro elettori, una parte crescente di americani pare essere critica verso i piani di radicale smantellamento di tanti programmi federali promossi (o promessi) da Musk.
Particolare preoccupazione desta, ad esempio, la minaccia di andare a intervenire, con tagli e privatizzazioni, sul Social Security, il popolare sistema pensionistico. Il presidente su questo non ha fatto un passo indietro e ha anzi rilanciato. Così come ha rilanciato temi di quelle «guerre culturali» che negli ultimi decenni tanto hanno contribuito a dividere e polarizzare il paese.
Trump ha celebrato la fine definitiva del «wokismo», dell’indottrinamento di bimbi e ragazzi con l’«ideologia transgender», della diffusione nelle scuole d’insegnamenti che si concentrano sul razzismo nello spiegare storia e natura della repubblica Usa. Temi, questi, che si sono rivelati elettoralmente vincenti e che i repubblicani contano appunto di cavalcare e sfruttare anche all’avvicinarsi del mid-term del 2026.
Terzo: l’Ucraina e il rapporto con Zelensky. Al quale Trump ha teso la mano, dopo l’umiliazione che lui e J.D. Vance gli hanno inflitto nell’incontro allo Studio Ovale la settimana scorsa. Mano tesa permessa da un precedente messaggio di Zelensky e, sulla base di quel che sappiamo, dall’intenso sforzo diplomatico ucraino ed europeo per cercare di ricucire lo strappo.
E dove centrale sembra essere la disponibilità di Kiev a firmare l’accordo per lo sfruttamento congiunto delle presunte risorse minerarie ucraine. Il cui potenziale rimane ignoto e comunque ben distante dalle mirabolanti promesse di Trump. Anche per questo, l’accordo è oggi significativo più per quel che simboleggia che per i suoi possibili effetti sostanziali.
I suoi termini così sbilanciati a favore degli Usa sublimano quell’atteggiamento e quella volontà neoimperiali che paiono rappresentare l’elemento distintivo di questo Trump 2 rispetto alla prima esperienza presidenziale del 2017-2021.
Si tratta di qualcosa di visibile anche nel quarto e ultimo ambito – la politica estera più generale – sul quale è necessario soffermarsi nell’analisi del discorso al Congresso. Dai dazi agli obiettivi di espansione territoriale, Trump non solo non è indietreggiato, ma ha addirittura rilanciato. Ha promesso di riprendere quel canale di Panama, costruito più di un secolo fa – ha incorrettamente rimarcato – «dagli americani e per gli americani, non per altri».
Ha ribadito la volontà di acquisire, «in un modo o nell’altro», il controllo della Groenlandia. Ha celebrato gli effetti positivi di quella «magnifica parola» che sono le tariffe: per correggere inaccettabili squilibri commerciali, rispondere a pratiche commerciali discriminatorie di altri, e soprattutto sanzionare e punire soggetti indisponibili ad assecondare gli Usa o sottostare ai loro diktat.
Un punto, questo, che riguarda ovviamente l’Europa. Menzionata poco o nulla nel discorso, se non per denunciarne i doppi standard in materia di commercio o l’insufficiente contributo europeo alla difesa dell’Ucraina. Ma destinataria indiretta di molti degli strali del presidente.
Europa alla quale Washington oggi chiede di farsi carico delle garanzie securitarie che saranno offerte all’Ucraina in cambio della sua acquiescenza all’accordo con la Russia e, soprattutto, di abbandonare i suoi piani di regolamentazione del big tech statunitense. La partita vera e centrale, quest’ultima, delle relazioni transatlantiche correnti.
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