Nei palazzi di Washington, Londra e Riad, e nelle tende della città saudita di Al Ula, i leader internazionali stanno pianificando la ricostruzione postbellica della Striscia di Gaza. Al momento sul tavolo ci sono proposte più o meno serie, altre più o meno ambiziose e altre ancora quasi utopiche. Da mesi sono in corso trattative parallele a quelle diplomatiche per tracciare il futuro di Gaza.

Alle iniziative di carattere pubblico si affiancano quelle dei privati. Ma per capire cosa significa ricostruire Gaza bisogna partire dai numeri della distruzione presentati dalle Nazioni unite.

Le macerie

Il Programma di sviluppo delle Nazioni unite (Undp) ha stilato un report dettagliato sui danni inflitti dall’operazione militare israeliana iniziata lo scorso 7 ottobre in seguito all’attacco di Hamas. «La portata della distruzione è enorme e senza precedenti. Questa è una missione che la comunità globale non affronta dalla Seconda guerra mondiale», ha detto Abdallah al-Dardari, direttore dell’ufficio regionale dell’Undp per gli stati arabi.

Sono almeno 370mila le case danneggiate, mentre 79mila quelle distrutte dai raid dei caccia dell’Idf. Si tratta del 70 per cento delle abitazioni, ma la guerra ancora in corso rischia di arrivare a distruggere anche l’80 o il 90 per cento di quelle presenti nella Striscia. Almeno 26 comuni su 30 hanno smesso di funzionare. L’85 per cento delle scuole ha subito ingenti danni, mentre il 70 per cento di queste dovranno essere ricostruite. Le strutture sanitarie sono quasi tutte distrutte, così come le strade, la rete fognaria e le condutture idriche. Solo per le infrastrutture i costi della ricostruzione sono stimati in 18,5 miliardi di dollari, sui 40 miliardi totali. Una cifra che può sembrare bassa, ma che è molto alta se si considera che Gaza è lunga 40 chilometri e larga circa 7, e che prima della guerra non godeva di infrastrutture avanzate e costosissime.

In tutto ciò c’è un altro dato da considerare, il tasso di povertà della Striscia che alla fine del 2023 era al 38,8 per cento aumenterà secondo gli indicatori a oltre il 60,7 per cento. Secondo l’Onu, l’esercito israeliano ha cancellato tutti i progressi fatti negli ultimi quarant’anni, cioè dal 1980 a oggi. E per ricostruire Gaza – qualora oggi si concludesse la guerra – ci vorrà una tabella di marcia molto serrata per evitare di superare il 2040.

Ci vorranno anni solo per eliminare i 37 milioni di tonnellate di detriti. Detriti che continuano a provocare morti e feriti, ogni settimana si contano almeno 10 esplosioni per gli ordigni inesplosi nascosti tra le macerie. L’Undp al momento ha creato un fondo da un valore di 100 milioni di dollari per avere un minimo sostegno finanziario da usare il giorno dopo la fine della guerra. Ma sono briciole. Gli Stati Uniti potrebbero contribuire mettendo a disposizione parte dei fondi congelati delle imprese iraniane, che ammontano a 120 miliardi di dollari.

Il nodo politico

A differenza dello scenario postbellico ucraino, che al momento procede con conferenze internazionali nei più importanti stati europei (anche a Roma, come è accaduto nell’aprile del 2023) e con accordi di massima già siglati (come quello con la Turchia), per Gaza è molto più complicato. E il problema è prettamente politico. Mentre per Kiev a trattare in prima persona sono il presidente Volodymyr Zelensky e i suoi ministri, per Gaza non esiste un unico interlocutore. Per ovvi motivi da parte palestinese non sarà Hamas l’organizzazione che discuterà della ricostruzione, ma neanche la debole Autorità nazionale palestinese che piuttosto sottostarà ai diktat internazionali.

A scendere in campo saranno i paesi arabi e la Turchia, ma lo faranno a determinate condizioni politiche. Al momento il segretario di Stato americano Antony Blinken ha detto che Arabia Saudita, Giordania, Qatar, Emirati Arabi e Turchia sono intenzionati a partecipare alla ricostruzione. Anche l’Egitto è interessato. Il requisito principale per il sostegno dei vicini in Medio Oriente è il riconoscimento dell’intera comunità internazionale dello stato palestinese e che la Striscia non sia in alcun modo sotto il controllo amministrativo o militare di Israele.

La Casa Bianca punta molto sul coinvolgimento del principe ereditario saudita bin Salman e sul capo degli Emirati Arabi Uniti, bin Zayed Al Nahyan. Tuttavia da Abu Dhabi sono stati chiari. Senza il riconoscimento della Palestina «non saremo pienamente coinvolti nella ricostruzione, e anche con Israele ciò avrà un effetto. Non è questa la traiettoria sulla quale abbiamo firmato gli accordi di Abramo», ha detto l’ambasciatrice emiratina all’Onu, Lana Nusseibeh.

Palestine Emerging

Mentre i leader internazionali portano avanti le trattative diplomatiche, i privati si muovono. Nei mesi scorsi è nata una coalizione di circa cento persone, tra cui ci sono avvocati, banchieri, ex politici e membri delle istituzioni, vertici di organizzazioni internazionali, imprenditori, architetti e ingegneri, chiamata Palestine Emerging. Uno dei loro primi incontri si è tenuto a Londra a dicembre, un secondo gruppo di 58 persone si è incontrato a Washington nel mese di marzo, poi si è tenuto un altro incontro nel West Bank. E nei primi giorni di giugno è prevista un’altra riunione del gruppo. Una programmazione serrata per un progetto ambizioso.

Dietro Palestine Emerging ci sono personaggi come Mohammed Abukhaizaran, membro del consiglio di amministrazione dell’Arab Hospitals Group, che fornisce le strutture sanitarie della Cisgiordania. C’è Chris Choa, fondatore e direttore di Outcomist, uno studio londinese che si occupa di progetti di sviluppo urbano. Poi ci sono Hashim Shawa, presidente della Banca della Palestina; Samer Khoury, ad della Consolidated Contractors International, tra le più importanti società di costruzioni al mondo, con un giro di affari di 1.872 miliardi di dollari. L’azienda governata da Khoury ha costruito in Medio Oriente aeroporti, infrastrutture, gasdotti e oleodotti nel golfo Persico. Il curriculum dei partecipanti promette un business miliardario su cui tanti sono pronti a mettere le mani. Il piano di costruzione di Palestine Emerging è diviso in tre fasi, di breve, medio e lungo periodo.

L’obiettivo entro il 2030 è raccogliere le macerie e ripristinare le infrastrutture basilari, entro i dieci anni successivi sviluppare la connettività regionale. La ricostruzione sarà completa entro il 2050. Nel piano iniziale Gaza avrà un nuovo porto, la rete 5g e strutture di desalinizzazione dell’acqua. È previsto un aeroporto a nord e un porto al largo che sorgerà su un’isola artificiale composta dalle macerie.

Un piano che vuole rendere Gaza indipendente sia da Israele sia da Hamas e contrastare la radicalizzazione con il benessere. Resta da capire quale sia la volontà di Tel Aviv. Ma le premesse indicano questo progetto come un’utopia.

© Riproduzione riservata