La solitudine di chi vive in una regione divisa tra Hezbollah, Damasco, Mosca, Tel Aviv e Teheran. Il “grande gioco” del Medio Oriente passa anche da qui
Sul tavolo del gioco mediorientale il mazzo di carte appare sparigliato. Nell’attesa del prossimo giro, non v’è certezza di come le tessere possano essere rimescolate. Né di quanto gli equilibri possano essere alterati su scala regionale e internazionale. È però certo che gli attori locali, quelli spesso invisibili agli sguardi di chi osserva da lontano e dall’alto, continueranno a fare il loro gioco. Di rimessa o di attacco, il loro piccolo agire sarà in costante dialettica con le grandi manovre.
Israele, Siria, Iran e Russia
Ne è la riprova quello che da settimane avviene in un luogo solo in apparenza periferico della guerra mediorientale: il Golan conteso tra Siria e Israele. Il versante orientale dell’altopiano strategico, nella zona sotto il controllo formale del governo di Damasco, è diviso, di fatto, in una zona, a nord, di influenza di Hezbollah, e in una zona, a sud, dove le fazioni locali filoiraniane faticano a penetrare.
I caschi blu della missione Onu (Undof) pattugliano, almeno sulla carta, un’area cuscinetto tra Israele e la Siria, travolta da una guerra intestina da più di 13 anni. Lo Stato ebraico, che ha annesso il Golan più utile nel 1981, dopo averlo strappato a Damasco nel 1967 e nel 1973, da anni conduce attività militari oltre questa zona cuscinetto, in violazione alle risoluzioni Onu, per contrastare la presenza di Hezbollah a pochi passi dalle basi militari russe.
In questa camera di compensazione, le comunità locali resistono sia ai bulldozer dello Stato ebraico, che erigono reticolati e sradicano alberi, sia ai taglieggiamenti degli sgherri inviati da Damasco col placet di Mosca, sia ai soprusi di faccendieri legati a Hezbollah.
Nell’ambito del nuovo round di guerra con il Partito di Dio in Libano, l’esercito israeliano ha compiuto alcuni attacchi sul Golan siriano. E unità del genio hanno ampliato il sistema di fortificazioni in vista di possibili battaglie di terra in quello che potrebbe essere un eventuale nuovo fronte bellico.
Ma questo fronte non è stato ancora aperto. Per una decisione politica dei vertici del potere siriano, incarnato dal presidente Bashar al-Asad. Il raìs conserva l’alleanza di lunga data con la Repubblica islamica ma è legato a doppio filo alle scelte strategiche della Russia, vicina a Israele.
Così facendo, Asad mantiene saldamente la linea politica indicata dal padre Hafez, al potere a Damasco dal 1970 al 2000: nessuna guerra diretta con lo Stato ebraico, bensì una spartizione di influenza del vicino Libano, come infatti avvenne a partire alla metà degli anni Settanta, quando la Siria occupò la parte centro-nord del paese e Israele il centro-sud.
La solitudine del Golan
Ancora oggi, Asad figlio rimane il miglior nemico di Israele. Secondo alcuni analisti, le pressioni di paesi occidentali e del Golfo, alleati degli Stati Uniti e vicini allo Stato ebraico, potrebbero spingere il raìs di Damasco a distanziarsi dall’Iran, descritto da molti come una potenza ora messa all’angolo.
Questo è il grande gioco. Sul terreno, negli sperduti villaggi del Golan a due passi dal reticolato di Israele, tutto questo sommovimento regionale è però accolto con un misto di rassegnazione e voglia di resistenza. «Il nostro primo nemico è il regime oppressivo di Damasco», afferma Rami, pseudonimo di un esponente di spicco della società locale della zona sud del Golan.
«Rifiutiamo Hezbollah ma non abbiamo fiducia in Israele. Nessuno di questi vuole il nostro bene», afferma Rami, a capo di una cooperativa di contadini. Dal 2018 «i russi hanno garantito a Israele che l’Iran non fosse presente nel Golan». Hezbollah ha comunque stabilito delle roccaforti nella zona nord della regione frontaliera.
In questa porzione di territorio siriano, altri contadini siriani denunciano da mesi violazioni quotidiane dei bulldozer israeliani. «Entrano liberamente, sotto gli occhi dei militari Onu, scavano fossati, alzano barriere, erigono reticolati, sradicano alberi. E se proviamo a opporci ci sparano addosso», afferma Maher. «Se Israele dovesse invadere lo farebbe solo per cacciare Hezbollah. Noi rimarremo sotto i russi e il regime (siriano). Ci sentiamo senza via d’uscita», insiste Rami.
Una via d’uscita, nel più lungo termine, per negoziare in modo meno subalterno con queste forze, percepite tutte come esterne al contesto, è invece tracciata da altri abitanti del Golan siriano. A due passi dalla trincea con Israele, esistono luoghi di pellegrinaggio dove persone di gruppi religiosi e socio-economici diversi, per decenni divisi lungo linee campanilistiche, visitano le tombe dei “martiri” caduti nelle numerose guerre contro Israele sin dal 1948.
Iniziative della società civile del Golan hanno di recente messo in risalto l’importanza di queste pratiche trans-territoriali, associandole alla necessità di condurre una resistenza dal basso e trasversale contro gli insistenti tentativi delle forze siriane e straniere di spaccare la società in maniera verticale e confessionale. Perché il grande gioco dovrà sempre tener conto del piccolo agire dei soggetti locali.
© Riproduzione riservata