Il Libano dove domani atterra la premier italiana Giorgia Meloni non è soltanto quello travolto dalla più feroce guerra di Israele dell’ultimo quarto di secolo. Né soltanto quello che si difende con una “resistenza islamica” di Hezbollah. Né tantomeno quello che, stando a notizie sparse di episodi di violenza, si starebbe avviando verso quella nuova guerra civile tanto auspicata dallo stesso governo israeliano e da alcuni settori dell’establishment americano.

È anche il Libano che resiste, con una visione e una pratica politica, sia alle mai sopite spinte espansionistiche dello Stato ebraico sia ai tentativi delle élite istituzionali e religiose di mantenersi dominanti nella gestione clientelare del paese.

Uno stato inclusivo

Su un territorio sempre più ridotto in macerie e stravolto da un massiccio e senza precedenti sfollamento di famiglie dal sud, dalla Bekaa e da Beirut, il movimento politico Cittadini e cittadine nello Stato (Mmfd il suo acronimo in arabo) lavora su più fronti per promuovere un articolato e concreto piano «per costruire uno Stato libanese inclusivo» e capace sia di «affrontare l’emergenza interna attuale» sia di «resistere alle ricorrenti aggressioni militari straniere», negoziando internamente ed esternamente «per elaborare una visione condivisa di politica estera e di difesa, che vada oltre i dettami delle risoluzioni Onu 1559 (2004) e 1701 (2006)».

Mentre le élite parlano in modo ambiguo di un “cessate il fuoco” e del rispetto delle risoluzioni Onu, aprono il banco dell’elemosina internazionale «per far fronte alla crisi umanitaria» sperando di mantenere attivi i rispettivi canali di aiuto clientelari, e organizzano un “vertice spirituale” tra cristiani e musulmani per ribadire la divisione verticale della società, gli emergenti leader politici di Mmfd, già candidati alle ultime elezioni legislative, nelle varie zone del paese sono in prima linea per organizzare l’accoglienza degli sfollati e la loro integrazione, seppur temporanea, nelle zone considerate più sicure.

Evitare la guerra civile

Anche per far sì che gli episodi interni di discriminazione su base comunitaria – tanto isolati quanto fisiologici in un contesto segnato da una crisi economica senza precedenti e dai mai curati traumi collettivi della guerra civile (1975-90) – non degenerino e non chiamino altre violenze su più larga scala.

Il lavoro sul terreno a sostegno della coesione sociale in tempi così bui è soltanto il lato più visibile e superficiale dell’impegno a lungo termine di Obeida Takriti, esponente di spicco di Mmfd a Tripoli, seconda città del Libano, porto settentrionale a pochi chilometri dalla Siria.

«Dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2019 e ora con questa guerra viviamo in una fase di transizione tanto pericolosa quanto cruciale per il nostro paese», ammette Takriti, 34 anni, una laurea in psicologia politica, un master in politiche pubbliche, capofila di iniziative per il sostegno di start-up libanesi dove il business si fonda all’innovazione sociale e, soprattutto, impegnato da anni in politica.

«Sebbene ci siano evidenti spinte per attivare il sempreverde progetto di dividere il Libano e la regione in cantoni comunitari – afferma Takriti – questa fase di transizione ci offre un’occasione imperdibile per negoziare, tra le parti politiche nazionali un nuovo patto sociale, perché emerga uno Stato in grado di soddisfare i bisogni e le prospettive di tutti i cittadini».

Takriti, figlio di uno shaykh sunnita di Tripoli, non ammette ambiguità: «Non abbiamo la stessa visione di Hezbollah ma siamo a fianco della resistenza contro il nemico israeliano. Nessuno però deve sentirsi minacciato dall’interno», afferma con un chiaro riferimento a chi, come Hezbollah in passato, possa pensare di ricorrere all’uso delle armi contro altri libanesi.

Il processo delineato da Mmfd parte dal basso e non dall’alto, dall’interno e non dall’esterno: invece di dare la priorità all’elezione di un capo di Stato deciso, di fatto, dalle élite e dai loro sponsor stranieri, serve un negoziato interno, che includa Hezbollah, da avviare quanto prima.

Il Libano di domani

Da questo primo negoziato dovrà nascere un governo d’emergenza con un mandato ben preciso: gettare le fondamenta per uno stato civile – diverso dallo stato confessionale attuale – capace di garantire sicurezza e benessere a tutti i libanesi. Per far questo, il nuovo esecutivo dovrà mappare le risorse energetiche e umane del paese e di condurre il primo censimento nazionale (l’ultimo risale a un secolo fa) senza considerare l’appartenenza confessionale.

Dovrà quindi pensare alla priorità della stragrande maggioranza dei residenti: sanità ed educazione per tutti, rivitalizzando il già esistente – seppure moribondo – sistema sanitario e scolastico pubblico. E questo, almeno nelle prime fasi, portando sotto l’ombrello dello Stato parte delle risorse e delle infrastrutture private locali e di quelle delle organizzazioni internazionali. Solo così il governo potrà godere di quella necessaria legittimità trasversale (e non vertical-clientelare) su scala nazionale per traghettare il paese verso elezioni legislative.

Una nuova legge elettorale servirà a dare forma a un parlamento inedito, composto da una quota di deputati eletti su base confessionale – per dare garanzia alle rispettive comunità – e una quota di deputati eletti su base civile, finalmente non legati all’appartenenza religiosa.

Proprio come previsto dagli accordi di Taif con cui nel 1989 si mise fine alla guerra civile. Il nuovo parlamento potrà così eleggere il nuovo capo di Stato, espressione di una visione negoziata e il più possibile condivisa tra le vecchie e nuove forze politiche, unite però dal progetto di un Libano sovrano e indipendente.

Nelle varie fasi di questa sequenza servirà includere gradualmente le strutture militari di Hezbollah nell’esercito regolare libanese, articolazione fondamentale del nuovo Stato dei libanesi. «Servirà tempo e non sarà un processo privo di tensioni, ma non si può pensare di escludere una fetta così consistente di libanesi dal nuovo patto sociale».

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