Golfo del Messico o Golfo d’America? Per Google Maps vanno bene entrambe, dipende da dove ci si localizza. Il gigante di Mountain View ha deciso di seguire le direttive di Donald Trump, che intende cambiare nome dell'insenatura in quanto «parte indelebile» del paese che rappresenta. Una decisione che ha suscitato sdegno e polemiche. Nel rispondere al tycoon, la presidente messicana Claudia Sheinbaum ha detto che può chiamarlo come vuole, «ma per noi e il mondo intero è ancora il Golfo del Messico».

Vale lo stesso per Google. Gli utenti americani che apriranno l’applicazione troveranno Golfo d’America, mentre i messicani e tutti gli altri leggeranno il nome in uso dalla fine del 1600. Il discorso si allarga anche alla vetta più alta del Nord America, il Monte McKinley, che tornerà a essere descritto così dopo che Barack Obama lo aveva cambiato in Monte Denali per rispetto delle popolazioni native che abitano quell’area.

«Di solito applichiamo le modifiche ai nomi dopo che sono stati aggiornati da fonti governative ufficiali», spiegano dall’azienda citando il Geographic names information system. Google, che con Maps copre l’80 per cento del mercato delle mappe per dispositivi mobili e conta oltre un miliardo di utenti attivi al mese, si adegua dunque alle decisioni dei vari stati. O, come sostengono esperti in materia, ci si consulta prima di tracciare le linee.

Ma secondo alcuni, si piega alle loro volontà. La geografia è un’arma politica fondamentale, da sempre sfruttata per affermare la visione di un governo, che sposta a proprio piacimento i confini per influenzare o convincere l’opinione pubblica. Se prima lo strumento erano le cartine geografiche, nell’era della digitalizzazione lo sono le applicazioni sviluppate dalle aziende tecnologiche.

Per evitare problemi modificano le frontiere, anche contraddicendo il diritto internazionale e l’integrità territoriale di un paese. Ma cambiando, di fatto, la percezione delle persone.

Confini labili

Quello del Golfo del Messico è solo l’ultimo capitolo di una lunga serie. Nel 2012, l’Iran aveva minacciato di denunciare Maps, considerato dal regime uno strumento di spionaggio, qualora avesse continuato a nascondere dalle sue mappe il nome Golfo Persico. La questione è atavica e vede Teheran rivendicare quest’area scontrandosi con gli altri paesi della regione, che preferiscono chiamarlo Golfo Arabico. Da parte sua, i rappresentanti di Big G hanno spiegato di non aver mai etichettato quel bacino idrico. A differenza di Google Earth, che invece utilizzava entrambi (forse saggiamente).

Storia simile vede protagonisti Giappone e Corea del Sud, divise dal Mar di Giappone. Non per i residenti sudcoreani, che lo considerano Mare Orientale, e come tale lo trovano sui loro dispositivi.

C’è una bella differenza anche nell’aprire l’applicazione di Google Maps dal Marocco o dal Sahara occidentale. È un territorio conteso tra Rabat, che l’ha occupato nel 1975, e il Fronte Polisario, che ha proclamato l’indipendenza istituendo la Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi. La mappa marocchina non evidenzia alcuna divisione, mentre quella sahrawi mostra una linea tratteggiata che simboleggia la loro esistenza.

Dalla Crimea all’India

Anche la Crimea, lato russo, viene rappresentata con una linea continua e quindi parte della Federazione, e dal lato ucraino con dei trattini. Così come il Kashmir viene considerato parte dell’India, ma solo sui dispositivi indiani, mentre per il resto del mondo rimane una fazzoletto di terra su cui il Pakistan rivendica sovranità.

Nel 2007, un altro caso controverso riguardava sempre New Delhi. Questa volta la disputa era con Pechino e l’oggetto della contesa era lo stato di frontiera dell’Arunachal Pradesh. A scatenare la reazione indiana era stato Google Earth, che aveva cambiato il colore del confine facendo sì che quel territorio apparisse sotto amministrazione della Cina e rivendicato dall’India: l’esatto opposto della realtà.

Maps va poi contro la comunità internazionale posizionando sulla cartina la Repubblica turca di Cipro del Nord, mentre tutti, dall’Onu alle altre aziende che forniscono servizi satellitari, non la riconoscono.

La “Google Maps War”

Spostare anche solo di un metro il confine nazionale può avere effetti devastanti. Nel 2010, Google Maps aveva erroneamente attribuito un piccolo appezzamento del Costa Rica al Nicaragua, su cui i due paesi erano in lotta da anni. Il governo nicaraguense non ci ha pensato due volte spostando subito i militari in quella zona per appropriarsene, giustificando l’incursione con la mappa disegnata da Big G. Per lo scontro armato ci è mancato davvero poco, ma la vicenda è passata comunque alla storia come la “Google Maps War”.

Così come grande indignazione aveva suscitato la scomparsa della Palestina dalla cartina digitale, denunciata da un gruppo di giornalisti gazawi nel 2016: la loro terra viene tuttavia da sempre demarcata e non etichettata. Qualche problema però c’era, come ammesso dalla stessa Google. Neanche Cisgiordania e Striscia di Gaza comparivano infatti sulla mappa, un errore a cui si prometteva di porre rimedio il prima possibile.

Tecnologia di Stato

«È sempre stata politica». Alfonso Giordano, professore all’Università Luiss Guido Carli dove insegna “Exogeography, Astropolitics and Space Economy”, non crede nella neutralità della tecnologia. «Dai romani, che la usavano per costruire armi, agli standard sul 5G: in ipotesi dovrebbe essere indipendente, ma risponde agli istinti delle persone».

Anche perché, spiega il professore, «dobbiamo ricordarci che le comunicazioni corrono lungo cavi statali». Sono dunque ricattabili, per estremizzare. Una ragione in più per mostrarsi ciò che vogliono vedere. Come sintetizza Giordano, «se un qualcosa non esiste sulla carta geografica, allora non esiste».

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