Scrive Tacito che pochi si macchiarono del crimine peggiore, un certo numero lo volle, mentre tutti lo consentirono, patendone le conseguenze. Come leggere dunque il massacro, le atrocità perpetrate sui civili a Bucha e Borodjanka? Che ruolo hanno nella guerra?

Si potrebbe pensare che il male parli da solo, che non serva ricostruire cos’è avvenuto, quale logica abbia guidato la carneficina. Correva il 1995, ricordo Ettore Mo inviato a Grozny, senza fiato davanti a un carrista carbonizzato, monumento alla perdita di senso dell’umanità. Chi ha commesso i crimini li ha lasciati esposti a tutte le telecamere del mondo. Le prime testimonianze puntano il dito contro i soldati acquartierati presso la fabbrica del vetro, raccontano come ogni giorno diventassero più rabbiosi. Se si sia trattato di un massacro pianificato o di una serie di crimini commessi in momenti diversi sulla stessa scena, ce lo diranno le inchieste, i rilievi forensi.

Vulnerabilità

La massima vulnerabilità dei civili in un contesto di guerra e insorgenza corrisponde al momento in cui la linea del fronte viene spostata, le truppe di occupazione smobilitano e l’incertezza informativa è massima – ci spiega chi ha analizzato gli eccidi del 1945 sui nostri appennini (Costalli, Moro e Ruggeri).

Non c’è niente di più pericoloso che il ripiegare di forze speciali che sono rimaste impantanate dopo essere state mobilitate per arrivare in silenzio, di notte, fra gli alberi e le case, e lanciare azioni decisive: e invece finiscono sotto tiro, diventano bersagli della guerriglia difensiva, inseguiti dai droni e costretti a rintanarsi fra le abitazioni in un terreno che non conoscono. Cominciano a rapire e interrogare per localizzare il nemico, vendicano i commilitoni. Il fronte che doveva marcare la vittoria viene miseramente abortito, ed ecco partire le rappresaglie casa per casa, l’accanimento sui maschi sotto i cinquant’anni, gli stupri di cui si sta raccogliendo prova.

È sufficiente uno sguardo a quanto resta degli accampamenti per cogliere che si trattava di truppe poco disciplinate. Soldati demotivati, mal riforniti, segnati dal dilagare del nonnismo, grande piaga dell’esercito russo. Poi i mercenari della Wagner e i tagliagole ceceni, gli uomini di Kadyrov: cosa ci aspettavamo, dopo averli visti macellare indiscriminatamente nei villaggi del Caucaso e nelle spedizioni siriane?

Piano del terrore

Oppure no. Queste sono le zone dove i russi sono arrivati subito, già in febbraio. Zone residenziali, dove si ritiravano nella dacha di vacanza i Bulgakov e i Pokrovsky: zone senza il pregresso di cattivo sangue che segna la guerra nel Donbass o a Mariupol. I satelliti ci mostrano come parte delle uccisioni risalgano già ai primi giorni.

Forse allora la fotografia che si sovrappone è quella di un massacro metodico e premeditato, un destino pianificato sin da quelle mappe mostrate alla tv russa, da quelli che ci erano apparsi come stravaganti commentatori, quelli che scrivono su RIA Novosti che l’Ucraina è comunque «essenzialmente nazista», o quelli che mostrano l’occupazione dell’Ucraina divisa in zone a trattamento differenziato.

Forse questi personaggi, che in tutti questi mesi hanno spiegato agli ucraini la loro storia e la loro identità, non sono mere figure di contorno – macchiette di un potere decadente – ma il segno sinistro di un disegno più profondo che affiora. Sfuma il mito di Putin a-ideologico a lungo coltivato in occidente: non ci troviamo solo davanti a crimini di guerra, ma all’incedere di un conflitto fratricida voluto per trasformare la natura stessa della Russia.

A suggello di questa tesi, la notizia della chiusura definitiva di Memorial, l’organizzazione-archivio della repressione di regime, voce instancabile degli attivisti per i diritti fondamentali.

In questo quadro, quello che a lungo è stato deriso come un pagliaccio provocatore come Vladimir Zhrinovsky, il politico ultranazionalista recentemente morto di Covid, va preso sul serio da un punto di vista epistemologico, ovvero riguardo allo statuto di verità: in fondo ha sempre detto (e votato) come il Cremlino pensa e vuole, a partire dalla prima invasione della Cecenia.

Quando la popolazione russofona ucraina si sente a disagio a parlare russo, pur parlando male l’ucraino, non si può più ironizzare sulla Mosca che denuncia il “genocidio nel Donbass”, perché quella dichiarazione è agita di conseguenza.

Nella misura in cui questo scostamento si dimostra vero anche su altri fronti – ovvero che eccidi e atrocità rispondono a un preciso piano di amministrazione del terrore – ci troveremmo davanti alla necessità di riconsiderare l’assunto di partenza di molti analisti: ovvero che l’a-ideologico Putin è semplicemente un attore razionale che ha sbagliato i calcoli, e ora si trova ad annaspare in versioni sempre diverse dei propri obiettivi, e in forme ondivaghe rispetto ai crimini di cui è accusato.

Da queste premesse consegue che occorre far crescere il costo della guerra, gestendo l’escalation tramite armi agli ucraini, e magari concedendo allo zar «una via d’uscita onorevole come architetto di pace» – per citare il presidente Erdoğan, l’alleato atlantico che più ha competenza in materia di invasioni e atrocità su popoli a cui viene negata l‘identità nazionale.

Punti di non ritorno

Nella misura in cui nelle esecuzioni sommarie di massa si riflette uno scostamento pianificato, ci collochiamo fuori dalla razionalità, per lo meno della nostra idea di razionalità.

Il conio sarebbe invece quello, fortemente ideologico, della Russia che può essere potenza solo se persegue la propria inconciliabilità con l’occidente, assumendosi forti rischi per combatterlo, tanto domesticamente quanto attraverso le divisioni che riesce ad alimentare grazie alle correnti politiche sovraniste, tradizionaliste e alt-right in Europa e negli Stati Uniti.

Rispondere a queste domande non è facile, e una ipotesi non esclude l’altra. Ci sono diversi motivi per cui in guerra vengono commesse atrocità sul terreno, mentre il quadro è inquinato dal proliferare di deepfakes che generano “verità alternative”.

Emergono solide prove di crimini di guerra commessi dagli ucraini sui prigionieri russi, vengono trasmesse “a nastro” dalle tv russe, e questo non potrà che avvelenare ulteriormente le dinamiche sul campo di battaglia. È necessario stare allerta rispetto ai toni della retorica potenzialmente genocida che trovano eco nei circoli mediatici e di potere a Mosca: tuttavia, ad oggi non si riscontra un intento genocida alla guida delle atrocità sul terreno, per quanto il governo ucraino evochi il termine, e i paragoni con Srebrenica siano apparsi sulla stampa.

Dopo aver silenziato o messo in fuga migliaia di oppositori della guerra, Putin pare ora muovere contro i nazionalisti più autentici, elementi che evidentemente non controlla. Il Cremlino cambia il generale al comando e cerca capri espiatori, esponendo la testa di chi è accusato di propri interessi nella gestione del dossier ucraino. Valga come esempio la caduta in disgrazia, o meglio agli arresti, dell’ideologo-tuttofare del sovranismo prima maniera, Vladislav Surkov.

La verità è che il potere comunicativo della violenza precede e travalica l’accertamento dei fatti; passate le telecamere, rimossi i morti, non è detto che saremo in grado di unire tutti i puntini, e questo è un serio problema, considerata la vastità delle implicazioni che ne derivano, in uno scenario di escalation che vede coinvolta, in preda agli spasmi della propria sindrome di accerchiamento, la seconda potenza nucleare del pianeta.

Sarà comunque verosimilmente troppo tardi rispetto a un’ondata mediatica che ovunque ha spinto verso una piena di argomentazioni emotive: si sta verificando quello che le guerre degli ultimi decenni ci hanno mostrato, la costruzione mediatica dell’evento-svolta, ovvero il fait accompli mediatico, una diversa lettura della natura delle cose.

Chi ricorda l’inizio della guerra in Jugoslavia rammenterà il massacro di Borovo Selo, che rese impossibile opporsi alla logica di guerra in Croazia.

Chi ha presente i 100mila morti della guerra di Bosnia Erzegovina, ricorderà il massacro del mercato di Sarajevo, le immagini davanti alle quali Madeleine Albright distolse lo sguardo, affermando che occorreva invertire rotta e portare la Nato, per la prima volta nella sua storia, a bombardare. E poi la carneficina di Račak, che portò dritti alla prima “guerra umanitaria” in Kosovo. Tutte svolte, punti di non ritorno le cui dinamiche hanno lasciato aperto più di un interrogativo circa chi e cosa abbia guidato i fatti.

La doppiezza dell’occidente

Bucha è per molti un game-changer che travolge le armi della parola (la politica, il negoziato verso la pace) e dà la parola alle armi (più armi verso la vittoria). Siccome le parti in guerra ritengono di avere molto da poter guadagnare e nulla da poter cedere, la guerra si protrarrà in uno scenario caratterizzato da grandi incertezze globali.

Nel lungo periodo occorre infine considerare una ragione spesso non espressa, per la quale è importante prestare attenzione a quale logica abbia guidato le atrocità. Larga parte del sud del mondo, quel mondo emergente che respira ancora l’eredità della colonizzazione, si schiera oggi dalla parte della Russia, fideisticamente impermeabile rispetto all’evidenza, liquidata come manipolazione “occidentale”, sentenze inappellabili che l’occidente non rivolge mai a sé stesso e ai propri alleati.

Non siamo arrivati qui per caso, o per la capacità seduttiva di Vladimir Putin, ma per saturazione rispetto alla doppiezza degli standard in materia di guerre, insorgenze e diritti universali fondamentali. Questo aspetto sfugge ai dispensatori dell’accusa di “benaltrismo” (whataboutism), accusa tipicamente rivolta a chi prova ad articolare un pensiero larvatamente critico attorno al rapporto fra violenza e politica.

Tre settimane fa, a Moura – nella regione maliana di Mopti – i mercenari russi hanno accompagnato (guidato?) le forze maliane nel peggior massacro che si ricordi dall’inizio dell’insorgenza jihadista nella regione saheliana: un’operazione condotta in un mercato e risultata in più di 300 morti, in larghissima parte civili. Esecuzioni sommarie durate diversi giorni, un’azione di pulizia etnica.

È verosimile che chi legge questo articolo ne sappia poco e nulla, e questo non è solo perché non ci sono armi nucleari in Mali, ma anche perché è noto – c’è poco da fare – che l’attenzione e ancor più il tentativo di spiegare scarseggiano quando le vittime non sono bianche, e magari vengono trucidate nel contesto di “azioni anti-terrorismo”. Insomma, da una parte molti in Africa guardano ormai alla Russia con simpatia e non credono ai massacri di Bucha, mentre dall’altra, nel disinteresse mediatico generale, non appaiono immagini dei massacri di africani.

Del resto, la città di Mosul è stata devastata dai bombardamenti a due riprese: al tempo dell’invasione americana del 2003 e durante la liberazione dallo Stato islamico nel 2018. In entrambi i casi non abbiamo immagini di morti.

Negli ultimi mesi c’è stata una leadership che ha usato un registro genocida nei propri discorsi, ha distribuito armi e poi ha rastrellato la popolazione su base etnica. Si tratta del governo etiope, schierato contro il Tigray ribelle.

Da una parte il premio Nobel per la pace, dall’altra una popolazione che, bersagliata dai droni occidentali, vive da mesi assediata in un’agonia senza medicine né viveri. Qui il massacro definito game-changer non c’è stato, forse anche perché nessuno ha interesse a determinare un cambiamento: si tratta di un grosso problema per la credibilità delle democrazie rispetto all’ordine mondiale.

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