Putin è sempre più determinato nel suo atteggiamento autoritario e bellicista, come dimostra la morte di Aleksej Navalny. La sua distopica prospettiva va invece contrastata riaffermando l’identità storica dell’Ucraina e il suo percorso di libertà. La strada dei negoziati passa da ciò che Kiev potrà riconquistare e da quanto l’occidente sarà capace di contrastare Mosca
Sono trascorsi due anni da quando il 24 febbraio 2022 Putin ha intrapreso l’«operazione militare speciale» contro l’Ucraina. L’inizio del terzo anno di una guerra rivelatasi logorante per entrambi i contendenti offre varie prospettive di analisi e tutti in fondo vorrebbero che portassero a delineare un’ipotesi concreta per un percorso di pace.
L’auspicio contrasta però con la rappresentazione di una realtà in cui non aiuta il contesto globale: siamo di fronte ad una grave escalation del disordine internazionale in altre parti del mondo, mentre la disaffezione del cosiddetto Global South cresce contro l’occidente delle democrazie.
Sulla dimensione ideologica sempre più autoritaria e bellicista del regime di Putin si gioca purtroppo il principale fattore di rischio per la evoluzione del conflitto in Ucraina. Ed è appunto da questa prospettiva che è necessario partire per un’analisi sui possibili scenari che potranno configurarsi in questo terzo anno di guerra.
Il quadro complessivo non lascia prefigurare a breve termine soluzioni negoziali, e piuttosto tende a delineare uno scenario di ulteriore logoramento se non anche di escalation, salvo che non intervengano input favorevoli per una parte.
La «minaccia ideologica»
In prossimità della scadenza del secondo anno di guerra, a delineare il quadro più rappresentativo dello stato della «minaccia ideologica» è intervenuto lo stesso Vladimir Putin, che ha riconsegnato alla storia le sue distopiche ragioni del conflitto contro l’Ucraina.
Sul sito ufficiale del Cremlino compare il testo integrale della “intervista” – tra virgolette perché il termine non è proprio adatto al caso in esame – concessa al discusso giornalista filo-trumpiano Tucker Carlson: il presidente russo si è dilungato di un discorso che ha trovato solo un interlocutore compiacente e senza che abbia osato porre qualche dubbio serio rispetto alle verità dell’intervistato.
È stata l’occasione per Putin di richiamare la dottrina mistificatoria enunciata nel saggio Sull’unità storica di russi e ucraini pubblicato il 12 luglio 2021 e nel più noto discorso alla nazione del 24 febbraio 2022 quando ha annunciato l’inizio dell’«operazione militare speciale» per «smilitarizzare» e «denazificare» l’Ucraina.
Il secondo profilo dell’analisi riguarda lo stato della «minaccia militare». Gli argomenti non mancano, a cominciare da quelli offerti dalla vicenda che ha visto il commander-in-chief ucraino Valerij Fedorovyč Zalužnyj polemizzare contro la leadership del presidente Zelensky: uno scenario non proprio edificante per una nazione in guerra, dove la popolazione sta sacrificando migliaia di giovani che combattono per l’indipendenza e la libertà.
Il generale Zalužnyj a novembre ha concesso una intervista all’Economist piuttosto discussa perché gli argomenti trattati probabilmente non andavano resi pubblici. Sta di fatto che il leader militare – che taluni osservatori danno in predicato per un futuro politico che insidierebbe lo stesso Zelensky – ha comunque delineato le criticità rappresentando uno scenario di estrema vulnerabilità.
Lo “stallo” può evolvere negativamente se si verificano due condizioni: 1) se l’Ucraina non estende la mobilitazione assicurando la turnazione al fronte con nuovi soldati addestrati, perché quelli che hanno sinora combattuto sono stanchi fisicamente e psicologicamente; 2) se l’Occidente non fa giungere ancora munizioni, armi, carri armati, aerei, droni e altre tecnologie, perché queste sono necessarie per resistere all’imponente pressione della Russia, che potrebbe anche sferrare una manovra offensiva su larga scala o comunque di lunga durata.
Sta di fatto che – pur potendo contare su un paio di milioni di riservisti – di fatto nei territori occupati ucraini non vi sarebbero che 420.000 soldati russi, un numero probabilmente superato dagli attuali reclutamenti degli ucraini. Secondo gli statunitensi, 500.000 uomini di entrambi gli eserciti sarebbero stati feriti o uccisi in azione: la Russia avrebbe subito le perdite più pesanti, con 120.000 morti e 170.000/180.000 feriti, rispetto ai 70.000 morti e 100.000/120.000 feriti dell’Ucraina. Certamente l’Ucraina sta vivendo una fase critica, confermata purtroppo dall’ultima perdita di Avdiivka, ma è prematuro valutare i vantaggi strategici conseguiti dalla Russia.
Altri dati possono meglio inquadrare la progressione territoriale e qualche successo strategico a favore dell’Ucraina. Se prima dell’invasione del 20 febbraio 2022 la Russia controllava il 7,04 per cento del territorio ucraino, più di 42.000 km², il controllo militare russo oggi è su circa il 17 per cento dell’Ucraina, ovvero oltre 100.000 km². E tuttavia va ricordato che i russi in un anno hanno perso il 10 per cento dei territori occupati a marzo 2022 e hanno subìto perdite del 20 per cento del tonnellaggio della flotta del Mar Nero colpita dai droni ucraini, tanto da doversi ritirare dalle acque della Crimea.
Le sfide dopo lo “stallo”
In sostanza, se di "stallo" si parla, in termini scacchistici tradizionali lo “stallo” implica che non c’è mossa che nessuna parte può fare per cambiare l’immagine sulla scacchiera.
L’Institute for the Study of War prospetta un programma di implementazione della produzione bellica della Federazione Russa con al centro il potenziamento dei droni affidato ad imprese nelle aree di Izhevsk, nella Repubblica di Udmurtia, di Tomsk, Samara e della stessa San Pietroburgo. Mosca starebbe anche lavorando a stretto contatto con Teheran per costruire una fabbrica in Iran in grado di produrre fino a 6.000 droni all’anno entro l’estate del 2025.
In cambio il regime iraniano vuole acquisire l’equivalente di attrezzature militari russe, come aerei da combattimento, elicotteri, sistemi di difesa aerea per far fronte alle emergenze dello scenario mediorientale. Anche secondo l’ International Institute for Strategic Studies di Londra la Federazione Russa ha aumentato le spese militari del 60 per cento rispetto allo scorso anno, arrivando al 7,5 per cento del suo Pil, incidendo per un terzo del bilancio complessivo.
Le analisi internazionali evidenziano comunque criticità nel comparto produttivo militare russo. Rimane dunque da chiarire cosa l’Ucraina possa fare, essendo condizionata dall’incerto sostegno degli Stati Uniti, che potrebbero vedere il ritorno del filo-putiniano Trump.
Su quest’ultimo, per inciso, si può anche sperare che lo spirito identitario e conservatore dei repubblicani lo induca a riconsiderare la concreta minaccia che rappresenterebbero anche per gli americani una Ucraina sconfitta e un’Europa a rischio. Gli Usa rimangono in ogni caso i maggiori investitori nelle spese militari con 905 miliardi dollari (erano 839 l’anno precedente), una cifra che rappresenta il 40 per cento del dato mondiale e il 70 per cento in ambito Nato.
Kiev spera anche che nell’Unione Europea si anticipi la consegna promessa di carri armati e artiglierie missilistiche di ultima generazione, come anche degli attesi aerei F-16 (certamente 42 dai Paesi Bassi e 19 dalla Danimarca) che insieme ai droni potrebbero rappresentare l’elemento di svolta per bloccare gli sforzi offensivi russi e rilanciare i contrattacchi ucraini. L’ultimo annuncio altamente simbolico - oltre che comunque concreto- è quello della Danimarca che si è impegnata a concedere a breve all’Ucraina tutto il suo attuale dispositivo dell’artiglieria.
La «difesa attiva»
Di più ampia visione è l’annuncio dato da Zelensky sul lancio di una nuova scelta strategica: la «difesa attiva». Il presidente sembrerebbe non volersi sbilanciare rinunciando al progetto rimasto incompiuto della «controffensiva».
Il primo obiettivo è dunque rallentare ogni ulteriore progressione del nemico, e quindi il programma difensivo degli ucraini prevede una sorta di «linea Zelensky» in risposta alla «linea Surovikin» realizzata dai russi a protezione del sud occupato e della Crimea. Si tratta di un sistema di fortificazioni su più linee e barriere, scandite da campi minati estesi e fronti di denti di drago e altri ostacoli per carri armati e mezzi meccanizzati, supportati dalla potenza di fuoco dell’artiglieria missilistica e dallo scudo di aerei e di droni.
Ma Zelensky ha cambiato la leadership militare anche per rilanciare un elemento di vantaggio degli ucraini: la capacità di compiere operazioni audaci, tattiche d’inganno e innovative, come accaduto all’inizio del conflitto con i colpi mirati che hanno "neutralizzato" i comandanti russi, oppure con le manovre diversive a sud per riconquistare Kherson, e con gli attacchi imprevedibili alla marina, al ponte di Crimea e quelli in profondità nella stessa Russi.
Nelle scelte del nuovo stato maggiore potrebbero esserci ora altre iniziative non prevedibili, come la progettazione di altri droni hitech, immuni ai sistemi di disturbo elettromagnetici, e di nuovi strumenti della cyber war, specie per puntare ai centri logistici e ad altri obiettivi nevralgici nelle retrovie russe.
Il 15 febbraio scorso dal New York Times si è appreso che al Congresso e agli alleati europei sarebbero giunte informazioni di intelligence su nuove capacità nucleari russe che nel tempo potrebbero diventare serie per la sicurezza internazionale, anche se sono in fase di sviluppo.
A Bruxelles intanto si è tornato a parlare della minaccia ai paesi Baltici, e di una deterrenza nucleare europea guardando con maggiore interesse alle potenzialità di quella francese offerta da Macron. In ogni caso, «sorpresa» e «resilienza» rimangono i canoni su cui l’Ucraina potrà ancora fermare la Russia, pur senza superare la linea rossa della «minaccia esistenziale» per una potenza che nella sua dottrina prevede il ricorso all’arma nucleare.
Anche per questi aspetti rimarrà fondamentale che l’Ucraina continui ad avere al suo fianco l’Occidente per assicurare la deterrenza necessaria, considerando peraltro che questa può essere utile anche per rafforzare una diplomazia più efficace per la fine del conflitto.
Deterrenza e diplomazia
Rimane dunque da esaminare il tema conclusivo dello scenario di un’iniziativa diplomatica che possa avere tratti di concretezza e realismo per l’avvio di negoziati, partendo in ogni caso da un assunto che non va dimenticato: il 24 febbraio segna l’inizio del terzo anno di una “guerra di aggressione” contro un paese libero.
La Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la distopica pretesa di un "diritto storico" alla riunificazione di popolazioni perdute ha rinnegato il diritto internazionale violando la sovranità dell’Ucraina e l’obbligo posto dalla Carta delle Nazioni Unite di risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici. La condanna per la guerra intrapresa da Mosca è stata ribadita da diverse Risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (a cominciare dalla Un A/ES-II/L.1 del 1° marzo 2022) e da una pronuncia della Corte internazionale di giustizia (Order Ukraine v. Russian Federation 182 Icj, 16.3.2022).
Lo stesso Putin è colpito da un ordine di arresto per il trasferimento forzato di minori ucraini emesso dalla Corte penale internazionale, che sta indagando su altri crimini di guerra come i bombardamenti indiscriminati e il massacro di Buča. Ciò posto, nei giorni successivi all’intervista concessa da Putin alcuni analisti si sono lanciati in ottimistiche interpretazioni su una propensione russa al negoziato. Ma a non smentire l’ambiguità dei proclami russi è intervenuto il ministro degli Esteri Lavrov con le sue precisazioni alla Duma di Stato. In un primo passaggio ha detto: «Rimaniamo aperti a una soluzione politica e diplomatica basata sulla presa in considerazione dei nostri interessi legittimi e delle realtà che si sono sviluppate nel corso di molti anni e che ora hanno portato alla situazione attuale».
Poi ha indicato: «Tuttavia, in assenza di proposte serie da parte di coloro che ci hanno dichiarato guerra e della loro riluttanza a tenere conto dei nostri interessi o delle realtà sul terreno, non sarà ancora possibile parlare al tavolo delle trattative. Nessuna di queste opzioni è visibile». Come dire, in sostanza: se l’Ucraina non rinuncia ai territori occupati e all’ingresso nella Nato, non se ne fa nulla. Come è noto, Zelensky ha ritenuto di non estendere alla Russia l’iniziativa avviata con altri 80 paesi per un’ ipotesi di negoziato basato sul "piano dei dieci punti" che dovrebbe essere presentato ad una Conferenza per la pace convocata dalla Svizzera rimasta ufficialmente neutrale.
In questa fase il percorso è ancora molto arduo, anche perché rimangono problematici i punti 5. Carta delle Nazioni Unite e integrità territoriale dell’Ucraina, 6. Truppe russe e ostilità, e 7. Giustizia. Sono i punti che nella formulazione dell’Ucraina prevedono il completo ritiro di tutti i territori occupati dalla Russia (dove sembra volersi includere anche quelli occupati prima del 2022, in Donbass e Crimea) e la costituzione di un Tribunale speciale per perseguire il crimine di aggressione e assicurare una giustizia riparativa.
In questi termini è difficile pensare di superare la riluttanza della Federazione Russa, e tuttavia la strada di un percorso diplomatico deve rimanere tra le priorità dell’Occidente. Nel maggio 2022 l’Italia si è fatta avanti con una proposta di pace presentata dal ministero degli Affari Esteri – avallata dal presidente del Consiglio dell’epoca Mario Draghi – al segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres.
Tra i passaggi scanditi dal piano italiano c’era la previsione del cessate il fuoco garantito da una forza di interposizione con Italia, Usa, Francia, Regno Unito, Canda, Polonia, Israele, Turchia e altri paesi disponibili, e la "neutralità" dell’Ucraina con garanzie delle maggiori potenze e l’ingresso nell’Unione Europea.
Ad oggi sul piano italiano piuttosto discutibili rimangono perciò la mancata previsione dell’ingresso nella Nato, condizione "esistenziale" per Kiev inserita nella Costituzione, e le soluzioni all’epoca previste con la conferma dei confini definiti al momento dell’indipendenza ma con imprecisate forme di autonomia nelle aree contese e il non-detto sul destino di Crimea e Sebastopoli.
Tuttavia, uno spazio negoziale sulla linea italiana potrebbe essere riaperto sull’ultimo punto che prevede l’avvio di negoziati per una “nuova Helsinki”. L’iniziativa potrebbe avere ancora un senso per l’intento di proporsi con una ragionevole mediazione rispetto alle aspettative più accettabili di una Federazione Russa con un ruolo non emarginato in una nuova architettura della sicurezza in Europa.
Quanto meno l’Occidente può concretamente manifestare di non avere alcun interesse a vedere un crollo della Russia, anche per il rischio di implosione di una potenza nucleare che ha ordigni tattici e strategici in varie regioni. Nella prospettiva di Putin una svolta che richiami anche la Russia al “Concerto europeo” delle grandi potenze potrà consentirgli di proporsi anche sul fronte interno in qualche modo "vincitore".
Il diritto
Tuttavia si dovrà rimanere fermi sul principio che il diritto internazionale va ripristinato, e su questo la Russia dovrà dimostrare concreta disponibilità cominciando col ritirare gli schieramenti in Ucraina e ai confini dei già minacciati Paesi Baltici, accettando che la Nato è un’alleanza difensiva affatto imposta ma ricercata in un processo di autodeterminazione dai Paesi che, insieme all’adesione all’Ue, si riconoscono in un sistema di valori e di libertà, per cui la sua presenza in Europa non potrà subire riduzioni e non potrà rinunciare ad assicurare la protezione dell’Ucraina.
E una prospettiva favorevole su questa strada ragionevole di negoziati va colta in un passo in avanti compiuto almeno una parte del Global South che – come osserva Le Grand Continent – in passato si era tenuto a distanza: nell’ agosto scorso l’Arabia Saudita è stata promotrice del vertice di Gedda dove 40 Stati e i rappresentanti dell’Unione europea hanno iniziato a condividere «consultazioni» sui «principi chiave per ripristinare una pace duratura e giusta per l’Ucraina».
In conclusione, la strada dei negoziati che escludano una “resa” di fatto del Paese aggredito passa dal convincere Putin e il resto del mondo che questo è quello che vogliono non solo gli Stati Uniti, ma soprattutto l’Unione Europea che vede negli ucraini un popolo che combatte anche per le libertà e i confini europei.
Per questo l’Ucraina deve essere ancora sostenuta per riconquistare la maggior parte possibile del terreno perduto, ma soprattutto l’Occidente dovrà essere capace di contrastare con più convinzione il disegno di Putin con le armi efficaci di cui può disporre: la deterrenza e la diplomazia. Entrambe rimangono fondamentali nella prospettiva di un conflitto che nel terzo anno di guerra si presenta ancora logorante, ma con possibilità di variabili estreme e imprevisti, che potrebbero anche far fallire le ambizioni imperiali di Putin.
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