- Oggi, quando si pensa allo spazio post-sovietico, la mente va, giustamente, al conflitto armato di larga scala in Ucraina; tuttavia, altre località dell’area geografica una volta contenuta nei confini dell’Urss sono soggette a contese e possibili scenari di altre escalation.
- Le elezioni in Ossezia del sud hanno riportato l’attenzione sul Caucaso meridionale. Le origini della conflittualità intorno all’Ossezia del sud vanno ricercate nella logica dell’organizzazione territoriale delle repubbliche dell’Urss nel Caucaso (e altrove), disegnate in modo da rendere le tensioni interetniche inevitabili.
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Il 24 maggio 2022 Alan Eduardovich Gagloev è stato proclamato presidente dell’Ossezia del sud: siamo a Tskhinvali, territorio che la maggior parte della comunità internazionale riconosce come parte della Georgia, a eccezione della Russia e di una manciata di altri paesi per i quali è una repubblica indipendente. Gagloev è asceso alla massima carica dello stato con poco più di 15mila suffragi, sconfiggendo il presidente uscente, Anatoly Bibilov. Ci si potrebbe legittimamente chiedere quale sia la rilevanza di una simile elezione, in un territorio lontano, meno popolato della Valle d’Aosta, perdipiù ritenuta illegittima dalla gran parte della comunità internazionale.
Oggi, quando si pensa allo spazio post-sovietico, la mente va, giustamente, al conflitto armato di larga scala in Ucraina; tuttavia, altre località dell’area geografica una volta contenuta nei confini dell’Urss sono soggette a contese e possibili scenari di altre escalation. Di recente, proprio le elezioni in Ossezia del sud hanno riportato l’attenzione sul Caucaso meridionale, soprattutto alla luce delle dichiarazioni del precedente presidente, Bibilov, che aveva annunciato di voler indire un referendum per l’unificazione dell’Ossezia del sud con la Russia (l’Ossezia del nord è già parte della Federazione russa), innalzando il livello di tensione con la Georgia che considera la regione di Tskhinvali proprio territorio.
Calcolo russo
Sebbene l’indipendenza dell’Ossezia del sud sia solo di facciata – la quasi totalità del budget del piccolo paese caucasico è costituita da aiuti provenienti dalla Russia, che vi mantiene anche una presenza militare (peace-keeper, ovviamente) – vi si celebrano regolarmente elezioni ogni quattro anni per eleggerne il presidente, figura dal margine di manovra limitatissimo. L’elezione di un candidato più moderato sulla questione di un’eventuale unificazione come Gagloev rispetto al più assertivo Bibilov è di sicuro una buona notizia per Mosca in questo momento, per evitare di far riesplodere una questione controversa nel Caucaso. Ma non si può escludere che un intervento russo abbia ritoccato il verdetto delle urne, così come non si può sapere con certezza quanto la popolazione dell’Ossezia del sud guardi con favore all’unificazione con Mosca: non esistono dati affidabili e imparziali che permettano di far uscire queste congetture dal campo delle ipotesi.
Il calcolo russo a proposito dell’Ossezia del sud si articola intorno alla questione dell’influenza che Tskhinvali garantisce a Mosca nel Caucaso meridionale e in Georgia. Non si tratta né di una novità per la politica estera russa né di una eccezione dovuta a una particolare simpatia nei confronti del popolo osseto: l’utilizzo di mai sopite questioni etniche o territoriali ereditate dalla disgregazione dell’Urss per indebolire gli stati dello spazio post sovietico è una costante della politica estera russa dagli anni Novanta: a questa logica rispondono gli interventi russi in Transnistria (1992), Abcasia e Ossezia del sud (1992, 2008) e Donbass (2014).
La partizione del territorio osseto risale al 1922, allorché l’Unione sovietica lo divise in un settentrione assegnato al Caucaso russo e un meridione parte della Georgia. A quest’ultimo territorio fu assegnato lo status di provincia autonoma all’interno della Repubblica socialista sovietica Georgiana, autonomia che, revocata nel 1990, diede inizio al separatismo della regione nei confronti di Tbilisi, prontamente sfruttato dalla Russia per stabilire una testa di ponte nel Caucaso meridionale.
La questione osseta riesplose nel 2008, quando la Georgia tentò di riprendere il controllo sui territori separatisti, scatenando la violenta reazione russa (guerra dei cinque giorni).
Le origini della conflittualità intorno all’Ossezia del sud vanno ricercate nella logica dell’organizzazione territoriale delle repubbliche dell’Urss nel Caucaso (e altrove), disegnate in modo da rendere le tensioni interetniche inevitabili.
Dopo la guerra russo-georgiana del 2008, i russi avevano dato un grande risalto all’Ossezia del sud: simbolicamente, il celebre direttore d’orchestra russo (nord-osseto) Valery Gergiev aveva eseguito a Tskhinvali la settima sinfonia di Shostakovich, dedicata alla resistenza sovietica all’assedio di Leningrado. Se, dopo un evento di tale portata simbolica, dopo una guerra vittoriosa in cui i “fratelli” del nord avevano soccorso gli osseti del sud, non è arrivata alcuna proposta di integrare Tskhinvali nella Federazione russa, è lecito domandarsi se ciò avverrà mai e soprattutto se ciò possa avvenire in un momento in cui la Russia è in tale difficoltà come ora.
Inoltre, va sottolineato come la Russia abbia bisogno oggi più che mai dei suoi vassalli ritagliati nei territori di altri paesi dello spazio post-sovietico: questi stati de facto sono uno dei principali strumenti di politica estera di Mosca nel suo vicino estero per mantenervi influenza e presenza militare. Il valore della Transinstria per condizionare la Moldavia e dell’Abcasia e Ossezia del sud per la Georgia è ora più prezioso per Mosca, specialmente per impedirne un eventuale (benché improbabile) accesso nell’Alleanza atlantica.
L’approccio russo al Caucaso
Sebbene lo status incerto di questi territori appassioni i giuristi, per Mosca la loro condizione giuridica ha scarsissima importanza: basti pensare che una settimana prima di lanciare l’invasione sull’Ucraina, la Russia non riconosceva le “repubbliche popolari” del Donbass, esistenti da ben sette anni e utilizzate poi come scusa retorica per giustificare l’invasione. Questa dinamica altamente strumentale chiarisce quale sia l’approccio di Mosca verso questi territori, e l’Ossezia del sud non fa eccezione.
Territorio montagnoso al centro della catena caucasica meridionale, l’area separatista di Tskhinvali si trova in una posizione strategica: a sud di uno dei punti di transito del Caucaso centrale (vi transitano un oleodotto e un’autostrada, garantendo un collegamento logistico ed energetico tra i due versanti) e incombe sulla capitale e sul centro dello stato georgiano, spada di Damocle tolta dai russi dal fodero sovietico e puntata su Tbilisi.
Nel pensiero strategico russo, la messa in sicurezza tramite l’occupazione di territori oltre il primo ostacolo orografico è una costante: se questa logica può essere riscontrata in Ossezia del sud e Abcasia, essa fu alla base della volontà di espandersi oltre la catena caucasica dell’impero russo oppure dell’avanzata dell’armata rossa oltre i Carpazi durante la Seconda guerra mondiale e la conseguente appartenenza di quei territori all’orbita russa (in versione sovietica).
L’approccio russo al Caucaso è segnato da ulteriori fattori di continuità: la combinazione tra presenza militare e gestione degli affari esteri nei territori dei suoi stati vassalli fu la politica che l’impero russo adottò nei confronti del Caucaso prima dell’annessione diretta. Il trattato di Georgievsk (1783), tra l’impero russo e il regno di Cartalia-Cachezia (la Georgia orientale di oggi) stabiliva che quest’ultimo dovesse subordinare le proprie decisioni di politica estera a San Pietroburgo, che ne avrebbe garantito l’integrità territoriale da minacce esterne. Fatte le dovute proporzioni, l’Ossezia del sud del 2022 non differisce sostanzialmente in termini di relazioni di potere con la Russia dalla Cartalia-Cachezia del 1783.
L’impatto della guerra
Sebbene la presa di Mosca sull’Ossezia del sud sia quasi totale, è lecito domandarsi quale impatto avrà l’invasione dell’Ucraina sulla regione caucasica. In primo luogo, Mosca disporrà di meno risorse in generale, e quindi potrebbe allocarne sempre meno al sostentamento dell’Ossezia del sud. Inoltre, l’attrattività della Russia sta indebolendosi al di fuori dei suoi confini, anche nei paesi del suo vicino estero: dopo quest’aggressione, non è impensabile che anche i suoi vassalli cerchino di prendere le distanze (nel limite di ciò che Mosca riterrebbe accettabile).
A livello regionale, altri attori sono in ascesa, anche se non sembra che nessuno di questi abbia qualche intenzione di muovere esplicitamente contro Mosca. Inoltre, nel caso la Russia risultasse così a mal partito da mettere in dubbio il sostentamento di Ossezia del sud e Abcasia, l’intera presa russa sul Caucaso verrebbe rimessa in discussione, in primis da chi abita la parte settentrionale della catena montuosa, e che ha avuto sovente difficoltà ad accettare il dominio di Mosca (ceceni, daghestani e ingusci, per citare solo alcuni tra i popoli più caldi).
La posizione egemonica della Russia nel Caucaso è già venuta meno durante l’ultimo round dello scontro per il Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaijan, vinto da quest’ultimo con il decisivo supporto turco. L’asse Ankara-Baku sembra favorire l’ascesa della stella turca nel Caucaso meridionale, dove le superpotenze americana e cinese sono solo marginalmente presenti, lasciando il campo ad altri attori. Tra questi bisogna anche contare Israele, fornitore d’armi all’Azerbaijan durante l’ultima guerra, e l’Iran, sebbene Teheran non sia ancora riuscita a estendere la sua influenza nell’Azerbaijan sciita o tra gli stessi osseti, popolo persiano (ma di fede ortodossa) con cui i contatti sono deboli.
Se è vero che l’intervento russo ha messo temporaneamente fine al conflitto per il Nagorno-Karabakh con l’arrivo di una forza di peacekeeping lungo il fronte, la debolezza di questo cessate il fuoco è stata messa in luce dalle forze azere, le quali sono avanzate nel territorio armeno proprio quando in Turchia si teneva uno dei primi colloqui di pace tra Russia e Ucraina: come detto, la debolezza mostrata dai russi in Ucraina si ripercuote negativamente sulla presa di Mosca sul Caucaso.
Scenari futuri
Ogni indebolimento russo favorisce la coppia turco-azera, considerando anche che Baku potrebbe proporsi come fornitore di energia e materie prime alternativo a Mosca. Dal canto suo, la Georgia può approfittare della sua posizione mediana tra Turchia e Azerbaijan, lucrando sul possibile incremento del flusso di materie prime ed energia sul proprio territorio. Come e se queste dinamiche si ripercuoteranno sull’Ossezia del sud è difficile dirlo; quel che è certo è che, nella regione caucasica, Mosca non occupa più una posizione di egemone assoluto e attori concorrenti possono emergere e sperare di vedere un giorno i russi confinati nella parte nord della catena montuosa.
Se la Russia dovesse accorgersi per tempo che il controllo del Caucaso meridionale le stesse sfuggendo, potrebbe provare come extrema ratio la carta dell’integrazione dell’Ossezia del sud, per non perdere del tutto questo territorio strategico: se lo vorrà, possiamo essere sicuri che il risultato di un eventuale referendum sorriderà al Cremlino.
Gli scenari futuri per l’Ossezia del sud dipendono strettamente da quanto il conflitto in Ucraina impatterà la Russia: a seconda di quanto le conseguenze dell’invasione debiliteranno Mosca sarà possibile stabilire la probabilità del mantenimento dello status quo (alta, vista lo scarso interesse per l’Ossezia da parte di attori terzi), l’integrazione con Mosca (bassa, dal momento che significherebbe l’apertura di un secondo fronte per la Russia), oppure il ritorno all’ovile georgiano (bassa, a meno che la Georgia non ottenga maggior supporto da Stati Uniti o Nato per reclamare i suoi territori).
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