Nei media dello Stato ebraico il blackout sulle storie palestinesi è (quasi) totale. E ora Netanyahu attacca e prova a silenziare una delle poche voci critiche
Il 27 ottobre scorso, a Londra, il giornale israeliano Haaretz, la cui direttrice dell’edizione in inglese Esther Solomon è originaria della Gran Bretagna, aveva organizzato una conferenza per i suoi lettori locali. Ospiti di punta l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, ultimamente più vicino alla sinistra di un tempo, e Nasser al-Qudwa, vecchia figura apicale dell’Autorità palestinese nonché parente di Yasser Arafat.
Gli ospiti dei numerosi dibattiti, fra i quali parenti di ostaggi ancora tenuti a Gaza e di vittime del 7 ottobre provenienti delle regioni israeliane di frontiera, erano arrivati al centro conferenze facendosi largo attraverso una contestazione. I manifestanti filo-palestinesi avevano appreso che ci sarebbe stato un raduno di israeliani e cantavano slogan minacciosi invocando nuovi attacchi contri obiettivi dello stato ebraico da parte di gruppi armati libanesi, yemeniti e palestinesi.
Quello che forse non sapevano, o che non consideravano rilevante, era che l’evento era organizzato da uno dei pochi giornali israeliani che hanno mantenuto un punto di vista equilibrato nel corso della guerra, denunciando i massacri di civili nella Striscia e i crimini di guerra compiuti dalle forze armate dello stato ebraico. Anzi, all’interno della sala conferenze, mentre fuori infuriava la protesta, il vecchio proprietario Amos Schocken aveva pronunciato un discorso assai critico verso Israele, che gli sarebbe valso un fiume di polemiche a Gerusalemme.
Il discorso di Schocken
«Il governo Netanyahu vuole continuare e intensificare gli insediamenti illegali nei territori destinati a uno Stato palestinese. Non si preoccupa di imporre un crudele regime di apartheid alla popolazione palestinese», ha detto Schocken nel discorso di apertura della conferenza.
«Ignora i costi sostenuti da entrambe le parti per difendere gli insediamenti e attacca i combattenti per la libertà palestinesi, che Israele chiama terroristi». E ancora: «L'unica possibilità con un governo così disastroso è chiedere agli altri paesi di fare pressione, come hanno fatto per porre fine all'apartheid in Sudafrica».
In sala la terminologia forte scelta da Schocken risultava per certi versi sorprendente. Ma il pubblico, perlopiù membri dell’ala progressista della comunità ebraica londinese, non si era scomposto: in fondo Haaretz è il quotidiano di Amira Hass e Gideon Levy, i giornalisti israeliani famosi per le loro posizioni filo-palestinesi, peraltro noti in Italia grazie alle traduzioni di Internazionale.
Ci sarebbe voluto qualche giorno perché Canale 14, la rete in fortissima ascesa vicino a Netanyahu che qualcuno ha bollato come la “Fox news israeliana”, mettesse le mani sul discorso di Schocken. Si trattava di un’occasione d’oro: se il governo di destra aveva già da tempo Haaretz nel mirino, le parole controverse del suo proprietario rappresentavano un’ottima occasione per affondare un attacco. Lo sapevano bene i giornalisti del quotidiano progressista, i quali hanno preso le distanze pubblicamente dalle parole del proprietario (la maggior parte, infatti, hanno posizioni più moderate).
«Cambiare il regime»
Non è bastato però per evitare che il ministro della Comunicazione, Shlomo Karhi, passasse dalle parole ai fatti. Il gabinetto di Netanyahu ha votato per tagliare tutte le pubblicità e gli avvisi di gare d'appalto governative sul quotidiano Haaretz, sia nell'edizione cartacea sia sul sito web.
Karhi, che sta anche perseguendo un disegno di legge per eliminare il servizio pubblico d’informazione Kan e la cui scure si è già abbattuta su media stranieri, ha rivendicato i suoi piani dicendo: «Siamo stati eletti, dunque possiamo cambiare il regime». Una dichiarazione che fa venire in mente proprio uno dei recenti slogan di Haaretz: «La democrazia non è solo di elezioni».
Il giornale è il più antico di Israele e, malgrado le posizioni di sinistra lo abbiano relegato ai margini prosciugando anche il suo bacino di lettori, mantiene una sua importanza. Basti pensare che in occasione della festa dei cent’anni, nel 2019, il giornalista Ofer Aderet era riuscito a scovare l’immagine di ogni primo ministro della storia del paese con il giornale in mano.
A senso unico
Anche se non ci sono forme di censura invasiva, nell’ambito della guerra i media israeliani hanno molto spesso scelto di evitare la pubblicazione di materiali che potessero ostacolare lo sforzo bellico o semplicemente pesare ulteriormente sulla morale di soldati e popolazione. E si sono adeguati al disinteresse del pubblico quanto alle tragedie nel campo opposto.
L’accademica israeliana Ayala Panievsky ha preso in esame 50 edizioni del telegiornale serale di Canale 12, la principale rete televisiva israeliana, nei primi 6 mesi di guerra. Ha osservato che in oltre 700 servizi ci sono state solo quattro menzioni di civili uccisi a Gaza, delle quali solo 2 contenevano immagini.
Su Canale 14 parlare di civili uccisi a Gaza è considerato una forma di tradimento. Il sito israeliano Seveth Eye ha calcolato che nella prima metà del 2024, dei 72.000 presentatori e ospiti apparsi nei canali israeliani, solo l’1,5 per cento apparteneva alla minoranza araba.
In questo modo, nelle bolle dell’informazione tradizionale e dei social media, molti israeliani rischiano di rimanere all’oscuro delle ragioni per cui Israele sta incontrando critiche sempre più dure nella comunità internazionale. E, quando Netanyahu si dichiara il nuovo Dreyfus, sono indotti a credergli.
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