- Qui a Jenin dall’inizio del mese le forze speciali di Israele stanno portando avanti una sorta di repressione a tenaglia sulla jihad palestinese per stroncare la testa di ponte del movimento in Cisgiordania.
- Quando arriviamo noi da Ramallah, ottanta chilometri a sud, sono quasi le sette e gli israeliani sono andati via da una mezz’ora. Come dileguati in una delle aree militari sparse nei territori occupati, in prossimità degli insediamenti dei coloni israeliani.
- «Abbiamo sentito il tonfo della porta che sbatteva, e subito abbiamo visto i soldati in casa», dice la mamma del ragazzo ricercato. «Mi hanno chiesto dove fosse Abdel, ma io ho detto che non lo sapevo» ricorda.
Decine di uomini per strada fanno quadrato intorno alla pila di macchine accatastate una sopra l’altra che i bulldozer israeliani hanno lasciato dietro di sé prima di ritirarsi da Tulkarem.
Alle cinque del mattino, giovedì scorso, un commando delle forze speciali è entrato nella città vicino a Jenin, a nord dei territori occupati della Cisgiordania, alla ricerca di sette uomini sospettati di appartenere alla rete della Jihad Islamica Palestinese (Jip), considerata una organizzazione terroristica da Unione Europea, Stati Uniti e altri paesi occidentali.
È la stessa rete nel mirino dell’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza chiamata Arco e Freccia, in cui la scorsa settimana sono rimasti uccisi cinque leader del movimento e con loro diciassette civili, i figli e le mogli dei combattenti.
Qui a Jenin dall’inizio del mese le forze speciali di Israele stanno portando avanti una sorta di repressione a tenaglia sulla jihad palestinese per stroncare la testa di ponte del movimento in Cisgiordania. Una specie di fanteria mandata in prima linea per il corpo al corpo con il nemico. All’alba cingolati in colonna si muovono su per la collina fino all’imbocco della città.
Qui le stradine che in alcuni tratti diventano cunicoli, costringono i soldati a procedere a piedi, fucile automatico in spalla e droni che registrano e captano qualsiasi movimento sospetto. Quando arriviamo noi da Ramallah, ottanta chilometri a sud, sono quasi le sette e gli israeliani sono andati via da una mezz’ora. Come dileguati in una delle aree militari sparse nei territori occupati, in prossimità degli insediamenti dei coloni israeliani.
Tutti nella piazza dell’ingresso della città urlano “Jarrafa israeli” che in arabo significa bulldozer israeliani, ma poi nessuno ha molta voglia di parlare. Un uomo si offre di accompagnarci nelle case dove i soldati israeliani hanno fatto irruzione, «ma non riprendetemi in viso», dice indicando la telecamera. L’uomo si sistema il cappuccio grigio della felpa sul capo, e ci fa strada dandoci le spalle sempre ben attento a non voltarsi. Lo seguiamo. Ci porta a casa di Abdel Jaber, uno dei ricercati che è riuscito a sfuggire all’arresto.
La madre ci mostra le stanze della casa oramai ridotte ad una montagna di mobili accatastati l’uno sull’altro. «Abbiamo sentito il tonfo della porta che sbatteva, e subito abbiamo visto i soldati in casa», dice la mamma del ragazzo ricercato. «Mi hanno chiesto dove fosse Abdel, ma io ho detto che non lo sapevo» ricorda. I soldati sono rimasti in casa con l’arma puntata sui genitori, i fratelli e le sorelle dell’uomo che cercavano. «Hanno insistito continuando a chiedermi informazioni su mio figlio, ma figuriamoci se io dicevo qualcosa agli israeliani», dice la donna con aria ferma. Dopo un’ora i soldati sono andati via.
«Guarda che cosa hanno fatto, hanno distrutto tutta la casa» continua mostrandoci i resti di una meticolosa perquisizione in casa portandoci da una stanza all’altra. L’ambiente è buio: l’unica fonte di luce è la porta di ingresso della casa, poi le stanze si aprono una dentro l’altra. Arriviamo in una sorta di salotto attrezzato nel corridoio. La donna indica una foto.
«Questo è mio figlio Abdel, quello che i soldati cercavano», dice la donna. Abdel Jader ha preso il nome da suo zio morto Shaeed, “martire” come chiamano gli arabo musulmani le vittime di chi muore combattendo l’ingiustizia, durante la seconda intifada nel 2002. Le chiediamo «suo figlio è un combattente?» e la donna, quasi senza lasciarci finire la domanda, risponde: «Certo che è un combattente. Era un ragazzino quando si è avvicinato alla jihad islamica».
E con il piglio di chi ha la ragione dalla sua parte senza tema di smentita: «E che cosa altro avrebbe potuto fare? Questi entrano in casa nostra di notte, ci terrorizzano nelle nostre case. È nostro dovere difenderci», dice, senza mai abbassare lo sguardo.
Il fronte aperto
La jihad palestinese, nata nei primi anni Ottanta nella Striscia di Gaza da una costola dei Fratelli Musulmani, si è ramificata fino in Cisgiordania stabilendo i propri fortini nella città di Hebron nel sud e Jenin nel nord. Contrari agli accordi di Oslo, gli jihadisti palestinesi rigettano la soluzione di due paesi e due stati, quello palestinese e quello israeliano, sulla terra che un tempo fu solo palestinese.
Proprio ieri 15 maggio cadeva il 75esimo anniversario della Nakba, l’esodo forzato per mano degli israeliani di 700mila arabi palestinesi dai territori occupati nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948 e della guerra civile che la precedette. Andiamo via. Il nostro cicerone incappucciato vuole portarci in un’altra delle case dove gli israeliani hanno fatto irruzione poche ore prima. Pare sia la casa di un membro della jihad importante. Il viavai in casa arriva fin sotto all’androne delle scale.
Ci facciamo spazio tra parenti e amici venuti a porgere il loro tributo. I divani e i materassi per terra impediscono quasi l’accesso alle stanze. «Cercavano armi», dice Obeida, il padrone di casa. «Ma io a casa le armi non le ho», spiega. Obeida sono anni che fa parte della Jihad islamica palestinese qui a Tulkarem, ma – commenta, «è la prima volta che vengono a casa a cercare armi».
Prima di andare via gli israeliani hanno detto che se i sette ricercati non si fossero consegnati entro due ore, alle 9 del mattino, loro sarebbero rientrati in città per un nuovo raid. Eppure nessuno qui pare avere l’aria preoccupata.
«Lo hanno detto solo per fare la voce grossa, perché non sono riusciti a prendere nessuno dei sette che cercavano. Ma qui di giorno loro non ci entrano» ci spiega la nostra guida con passo oramai serafico camminando sempre un passo davanti alla camera senza voltarsi. In casa le donne hanno preso a risistemare divani e materassi, fuori gli uomini hanno sgomberato le strade dalle macchine ribaltate in strada dagli jaffar israeliani. Tuttavia gli israeliani hanno fretta.
Vogliono eliminare quella spina nel fianco che è la jihad islamica in Cisgiordania. Mentre a Gaza i suoi leader restano confinati in un fazzoletto di terra che dal 2007 ha perso anche il suo sbocco sul mare per via del blocco navale che Tel Aviv ha imposto, in Cisgiordania il movimento può fare leva sugli oltre tre milioni e trecento mila abitanti.
In Egitto Mohamed al Hindi, uno dei leader della jihad palestinese di Gaza, lo scorso sabato ha negoziato un cessate il fuoco con Tel Aviv. Ma la linea del fronte resta aperta. Anche perché ad Arrabia, villaggio a una decina di chilometri a sud di Jenin, il corpo di Khadr Adnan, il leader della jihad palestinese morto nelle carceri israeliane dopo ottantasei giorni di sciopero della fame, non è stato ancora restituito. E questa è la prima delle condizioni poste dalla jihad per una tregua.
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