Mentre i palchi della convention democratica di Chicago vengono smontati e Kamala Harris torna a fare campagna elettorale nei settantacinque giorni che restano, la domanda che resta inevasa è: e adesso che succede? Perché le ultime quattro settimane successive al ritiro di Joe Biden dalla ricandidatura non avrebbero potuto essere migliori per la nuova candidata Kamala Harris.

In pochissimo tempo è riuscita a restituire l’entusiasmo necessario a militanti e donatori grandi o piccoli che siano, tanto da aver conteggiato un numero complessivo di finanziatori di piccole somme maggiore di quello raccolto da Biden in poco più di un anno.

Ha riunito attorno a sé in tempi brevissime tutte le correnti, dalla sinistra più radicale ai moderati, lasciando solo qualche mugugno ai centristi più esposti elettoralmente e ai filopalestinesi che ritengono la sua posizione su Israele e Gaza ancora troppo cerchiobottista, anche se certo la vedono con occhi migliori rispetto a Joe Biden ritenuto da alcune frange quale “complice del genocidio”.

Soprattutto, ha saputo mettere tra parentesi la vicepresidente appannata di Joe Biden, a sua volta derivata dalla campagna caotica per le primarie presidenziali 2020, finita in malo modo nel novembre 2019, prima ancora dell’inizio dei vari contest elettorali.

Le crepe nell’elettorato

Adesso però c’è la parte difficile, il rischio che si riproduca un effetto 2016 che lasci i dem con un falso senso di fiducia nelle possibilità di vittoria dopo settimane di nera disperazione dopo il catastrofico dibattito del presidente Biden contro Donald Trump lo scorso 27 giugno.

A mettere in guardia dal palco della convention è stato Bill Clinton che nelle sue due campagne elettorali ha sfidato la corrente contraria dell’opinione pubblica senza perdersi d’animo, ma anche colui che, come potenziale primo first gentleman d’America, aveva visto sgretolarsi le possibilità di vittoria della moglie Hillary Clinton di fronte a un Trump che era riuscito a farsi strada nel “Blue Wall” dei dem, quegli stati post-industriali di Michigan, Pennsylvania e Wisconsin che ancora oggi sono nuovamente contesi nonostante la vittoria di Biden quattro anni fa e stavolta a impensierire i dem sono i cittadini che fanno parte della minoranza musulmana.

Se le manifestazioni filopalestinesi hanno mostrato numeri tutto sommato trascurabili a Chicago, non è detto che l’astensionismo di comunità come quella di Dearborn, sede del quartiere generale della Ford, non ricreino quella tempesta perfetta che aveva affondato i dem nel 2016.

Economia e politica estera

E si giunge così a un altro punto dolente per Harris: quali politiche attuerà? Certo, c’è una piattaforma programmatica su cui basarsi che però è grosso modo la stessa bozza approvata lo scorso 13 luglio dal Comitato Nazionale Democratico per una seconda presidenza di Joe Biden.

Sarebbe facile pensare che tutto sommato alla candidata basti seguire la strada già tracciata, ma c’è una serie di controindicazioni a questa strategia. La principale è quella di legare il proprio nome a Joe Biden in modo inestricabile. Difficilmente si potrebbe smentire la critica di chi direbbe che la sua presidenza sarebbe un secondo tempo di quella dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Già, ma su cosa puntare?

Di sicuro non sulla politica estera, dove la ferita lancinante di Gaza e del sostegno a Israele di Biden rischia di far perdere per sempre preziosi voti progressisti, così come una svolta filopalestinese abbandonerebbe un pezzo di voto ebraico, che nel 2020 ha scelto i dem con oltre il 70 per cento di consensi.

Quindi meglio lasciar stare la questione e sperare che l’amministrazione in carica ottenga un sospirato accordo per un cessate il fuoco che nonostante gli annunci prematuri appare ancora lontano dall’essere raggiunto.

Una possibile differenziazione potrebbe riguardare l’economia, ma la prima confusa uscita di Kamala sul possibile controllo dei prezzi dei beni di consumo poi frettolosamente corretta con alcune fumose precisazioni fa pensare che anche qui ci si muove su un terreno accidentato dove il ricordo della prosperità dei primi anni di presidenza Trump è qualcosa di difficile da dissipare.

Il governatore della Federal Reserve Jay Powell ha annunciato nel suo discorso di venerdì all’evento informale della Fed che si tiene ogni anno nel resort montano di Jackson Hole, in Wyoming che nel prossimo futuro questo taglio ci sarà, e ciò potrebbe essere d’aiuto a Harris, che è ancora percepita come più debole del tycoon sull’economia.

Nonostante questo, la fine del nome Bidenomics, che sopravvive come sfottò usato dai repubblicani, costituisce un avvertimento cautelativo per l’immediato futuro.

Il nodo della Corte Suprema

E questo spiega il perché finora la candidata abbia usato una vaghezza assoluta sulle proposte strettamente politiche persino nel discorso di chiusura della convention.

Una possibile modo di distinguersi dal recente però potrebbe essere quella di concentrarsi sulla Corte Suprema, profondamente impopolare tra gli elettori dem dopo la sua trasformazione, avvenuta sotto la presidenza di Donald Trump, in un organismo profondamente conservatore che, da ultimo, ha concesso una vasta immunità ai presidenti nell’esercizio delle loro funzioni.

Curiosamente, infatti, nella piattaforma risulta assente qualsiasi proposta di riforma dell’organismo anche se, a fine luglio, Joe Biden ha scritto un lungo commento sul Washington Post dove individuava nell’introduzione di mandati a termine ventennali la possibile uscita da questo stato cose, insieme all’introduzione, tramite legge del Congresso, di un codice etico con forti vincoli nei confronti della ricezione di doni ed elargizioni dall’esterno.

Se nel secondo caso si tratta di una road map fattibile con una maggioranza in entrambi i rami del Congresso, nel primo la cancellazione di un mandato a vita richiederebbe una maggioranza dei due terzi, impossibile da raggiungere senza l’aiuto di un pezzo di partito repubblicano, ipotesi improbabile al momento.

E allora ecco tornare in ballo la possibilità di ampliare il numero di giudici nel massimo tribunale federale, mossa già tentata senza successo da Franklin Delano Roosevelt nel 1937, ma che oggi sarebbe più fattibile in presenza di una maggioranza minima al Senato e di un cambio dei regolamenti, entrambe mosse controverse fino a qualche tempo fa ma che oggi, in presenza di una maggioranza granitica di sei giudici conservatori su nove, potrebbe essere fattibile.

L’importanza della squadra

Infine, c’è un’ulteriore opzione: puntare soltanto sull’ampliamento delle politiche sociali e l’ampliamento del welfare, tutte politiche popolari di per sé anche quando venivano promosse dall’impopolare Biden.

E del resto sarebbe una scelta in linea con quanto detto da Ezra Klein sul New York Times qualche giorno fa: a contare in queste elezioni non è tanto la candidata, arrivata soltanto da un mese al vertice, quanto lo stesso partito democratico, che è tornato a essere una macchina in grado di raccogliere voti e consensi anche senza l’aiuto di un leader carismatico come negli anni di Barack Obama e Bill Clinton attraverso una strategia spietata incentrata sull’interesse supremo del Partito che di fatto ha reso possibile la rinuncia di Joe Biden lo scorso luglio.

A contare, adesso, è la squadra e lo ha dimostrato una convention ricca di volti “presidenziabili” come il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro e l’omologa del Michigan Gretchen Whitmer ed è un modo anche per riuscire ad abbandonare una volta e per sempre l’immagine di partito vicino alle élite costiere che gli rimane appiccicata addosso da oltre dieci anni.

E lo testimonia, infine, l’aver puntato sia a livello retorico che coreografico allo United Center di Chicago su due elementi tradizionalmente appannaggio dei repubblicani come libertà e patriottismo, vicini al cuore anche degli americani che vivono lontano dai grandi centri culturali e che in passato costituivano una delle gambe della coalizione democratica e che possono tornare a casa nei prossimi anni in seguito anche grazie all’abbandono della postura elitaria da parte dei dem.

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