Mentre negli Stati Uniti ci si avvicina al dibattito presidenziale del 27 giugno, che si svolge prima delle convention dei due maggiori partiti, la campagna elettorale si è già assestata su un modello ben preciso: quello degli attacchi personali.

I programmi elettorali dei due candidati non potrebbero essere più diversi: da una parte il neoprotezionismo solidale dell’amministrazione Biden che cerca di sostenere l’economia con grandiosi progetti infrastrutturali e un massiccio uso della spesa pubblica, dall’altra il nazional-conservatorismo repubblicano condito da promesse di deregolamentazione ambientale e di fisco più leggero per i redditi più alti.

Nonostante questo, il dibattito è tutto incentrato sulle persone di Joe Biden e di Donald Trump. È vero che si tratta di una costante del periodo preelettorale, sin dalla primissima campagna del 1800 che vedeva contrapposti due padri fondatori come Thomas Jefferson e John Adams.

Spot “negativi”

Ma in queste settimane gli spot “negativi” sono diventati lo strumento principale per convincere gli elettori. E se Trump attacca il presidente a colpi di video, tendenziosamente modificati, che dimostrano la sua «senilità», Biden, che nei primi mesi del suo mandato nel 2021 si riferiva al tycoon chiamandolo «il mio predecessore», ha deciso di attaccarlo nel suo punto debole: la fedina penale.

La campagna del presidente in carica ha così prodotto uno spot che dipinge l’avversario come «un criminale condannato» che pensa solo a sé ed è pronto a tutto pur di evitare di scontare la sua pena. 

In effetti i sondaggi sembrano risentire del verdetto di colpevolezza su 34 capi d’accusa che una giuria newyorchese ha emesso a fine maggio. Il riferimento è ovviamente al cosiddetto “processo Stormy Daniels”, condotto dal procuratore Alvin Bragg, tutto incentrato sull’associazione a delinquere che avrebbe portato al pagamento di 130mila dollari alla pornostar Stormy Daniels, avvenuto nel luglio 2016, per nascondere la relazione extraconiugale che aveva avuto con il futuro presidente nell’estate del 2006.

Una rilevazione degli scorsi giorni di Fox News, un network tutt’altro che ostile verso i repubblicani, dava Biden avanti di due punti rispetto a Trump. Se si includono anche le candidature di Robert Kennedy Junior e di altri candidati minori, il vantaggio cala a un solo punto.

Forse siamo dentro i margini d’errore ma è un dato di fatto che un vantaggio per l’attuale inquilino della Casa Bianca non si vedeva da mesi. Negli spot si cerca di capitalizzare il più possibile l’attuale situazione. E se Trump è dipinto come un delinquente egoista, Biden appare come un personaggio che «combatte per il benessere della tua famiglia».

Un cambio di strategia notevole anche rispetto agli ultimi mesi, quando lo staff presidenziale, temendo una possibile assoluzione, esitava a usare questo tipo di argomenti. Rafforzando la sensazione repubblicana che il dipartimento di Giustizia sia stato «armato» contro Trump in quella che, ai loro occhi, è una «caccia alle streghe» giudiziaria.

Dalla campagna di Biden confermano la linea. Intervistato dalla Cnn, il codirettore Mitch Landrieu, ha detto che il senso della pubblicità è «mostrare al popolo americano qual è la questione decisiva di quest’elezione: saggezza, coraggio, personalità».

La controffensiva di Trump

Ma la situazione ha anche degli aspetti positivi che Trump sembra intenzionato a cavalcare. Dal suo quartier generale è partita un’operazione per fare breccia in uno dei segmenti elettorali della coalizione dem in apparenza più tetragoni al cambiamento, quello dei maschi afroamericani.

La scommessa del tycoon è che in alcuni di loro possa scattare una sorta di immedesimazione. Certo, tracciare una similitudine tra la «persecuzione» e i processi trumpiani con gli eventuali eccessi del sistema giudiziario nei confronti della comunità afroamericana, sembra un vero azzardo. Ma è altrettanto vero che il 20 per cento di loro è più vicino alla destra sui temi sociali e finora ha votato dem per le misure di welfare.

Il successo di questa strategia, però, si potrà misurare solo una volta contati i voti. E dalla Casa Bianca stanno comunque passando al contrattacco ricordando, ad esempio, quando negli anni Ottanta Trump aveva chiesto di condannare a morte cinque giovani afroamericani ingiustamente accusati di uno stupro avvenuto a Central Park.

O ancora la vicinanza del tycoon a un gran numero di suprematisti bianchi “in purezza”. Non ultimo l’influencer di estrema destra Nick Fuentes, che lo scorso autunno è stato ospite di una cena a Mar-a-Lago.

Raccolta di fondi

Un terreno concreto dove Trump sta superando Biden è invece quello della raccolta fondi. Mentre si svolgeva il processo e l’ex presidente, bloccato in aula, era fisicamente impossibilitato a organizzare e a partecipare ai comizi, la sua raccolta fondi procedeva a gonfie vele.

Già ad aprile, mese di inizio del processo, Trump aveva raccolto 25 milioni di dollari in più rispetto al presidente in carica e il mese successivo questo divario si è allargato: 141 milioni contro i soli 85 finiti nelle casse dei dem.

La Casa Bianca però può ancora godere di un totale combinato di fondi, inclusi quelli a disposizione del Partito democratico, di 212 milioni. Mentre, anche se non ci sono ancora dati definitivi, i repubblicani e il tycoon possono contare su 170 milioni.

Sono dati che però, al di là dell’effettiva forza economica immediatamente misurabile, dicono poco su chi prevarrà a novembre. Il costante vantaggio monetario di cui ha goduto Hillary Clinton nel 2016 non si è poi tradotto nella vittoria alle presidenziali di quell’anno.

Contro la Corte suprema

La vera novità di questa campagna, però, sono gli attacchi personali destinati ai giudici della Corte suprema. Ce n’è stato uno molto diretto fatto dal presidente durante una raccolta fondi a Los Angeles, poco dopo il G7 italiano.

Biden ha detto che se Trump verrà rieletto «nominerà due nuove bandiere rovesciate», facendo riferimento alla controversa vicenda dei vessilli estremisti esposti nei giardini delle residenze del giudice conservatore Samuel Alito.

Non solo, nella medesima occasione il presidente ha rimarcato che la «Corte suprema non è mai stata così squilibrata così com’è oggi, mai». Affermazione d’impatto, ma sostanzialmente falsa: basti pensare che nel 1858 la sentenza Dred Scott, che stabiliva che gli afroamericani non potevano essere cittadini americani, aveva registrato un solo giudice dissenziente. Mentre durante il primo periodo del New Deal, negli anni ’30 del Novecento, la Corte era dominata dai cosiddetti «quattro cavalieri dell’Apocalisse»: quattro magistrati fedeli ai dettami della libera impresa, ostili a qualsiasi regolamentazione del lavoro.

Ad ogni modo il tema ha una certa efficacia presso l’elettorato. In fondo anche Trump, nel 2016, ha guadagnato una parte minore dei suoi consensi con la promessa che avrebbe nominato un giudice conservatore in sostituzione del defunto Antonin Scalia.

Molto tempo è passato da allora e, dopo che nel giugno 2022 la sentenza Dobbs v. Jackson ha cancellato la protezione federale del diritto all’aborto, adesso è un tema più caro ai progressisti, che già in questi giorni hanno dovuto incassare sentenze marcatamente iperconservatrici come una riguardo al divieto di innesto dei cosiddetti “bump stock” nelle armi, un dispositivo che può trasformare anche un semplice fucile in un piccolo mitra.

A queste si aggiungono le controversie sui presunti casi di malversazione del già citato Alito e di Clarence Thomas, accusati di aver accettato costosi doni da parte del miliardario repubblicano Harlan Crow. Tutti argomenti che stanno animando i dem, che non vedono l’ora di tentare di riformare la Corte e di mobilitare i propri elettori preoccupati da questa svolta a destra. Così da dimenticare anche alcuni episodi di senilità del presidente Biden.

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