Il paese è in conflitto perenne dal 2021, diviso tra militari e guerriglie. Già vi era stata la crisi dei Rohingya con l’accusa ai militari di genocidio. Ora il sisma colpisce una popolazione con già 20 milioni di bisognosi di aiuti umanitari
Il terremoto è solo l’ultima tragedia del Myanmar, uno stato che sfugge alle cronache anche in Asia. Probabilmente il sisma ha causato migliaia di morti ma le notizie escono con il contagocce a causa della censura a cui la giunta militare, al potere dal 2021, ha sottoposto il paese.
Il Myanmar è in stato di guerra civile a porte chiuse da quasi quattro anni, anche se le ribellioni sono endemiche sin dall’indipendenza del 1948. Negli ultimi anni l'esercito della giunta (chiamato Tatmadaw) è stato messo in fuga dalle varie coalizioni ribelli, perdendo il controllo di due terzi del territorio: oggi si calcola che diriga non più del 20-25 per cento del paese, mentre il resto è nella mani di vari gruppi armati. Il Myanmar è una nazione complessa con numerose minoranze etniche interne (se ne contano 130 tra cui i karen, i chin o i jinpo). Dal punto di vista istituzionale si tratta di un’unione tra sette regioni (chiamate Burma Proper o Birmania propriamente detta) e sette “stati” in rappresentanza delle minoranze.
La struttura è pensata per essere federale, con l’esigenza continua di rafforzare il collante collettivo, molto sentita da ogni birmano. Uno dei temi unitari è la religione buddista, condivisa da quasi il 90 per cento della popolazione (il restante 6 per cento è cristiano e il 4 per cento musulmano). In tale articolazione, l’esercito si è arrogato per decenni (fin dal primo golpe del 1962 e con poche parentesi) il diritto di incarnare lo spirito nazionale.
La democrazia sostenuta dall’Occidente, e rappresentata da Aung San Suu Kyi, ha anch’essa una tradizione: il padre della premio Nobel, il generale Aung San, fu il primo premier indipendente, negoziò e ottenne la libertà dai britannici. Fu ucciso da un oppositore interno e da quel giorno la famiglia raffigura l’unica alternativa ai regimi militari successivi.
Dopo la parentesi democratica del 2015-2021, il ritorno di Tatmadaw al potere ha riacceso le spinte secessioniste e quelle autonomistiche. Questa volta però i vari raggruppamenti hanno avuto l’intelligenza di coordinarsi tra loro, ottenendo numerose vittorie militari e restringendo sempre più il terreno controllato dalla giunta.
La guerra ha tuttavia peggiorato le condizioni di vita della popolazione: già prima del terremoto circa 20 milioni di birmani necessitavano di assistenza umanitaria, con circa 3 milioni di sfollati interni e molti rifugiati nei paesi limitrofi. Il sisma non fa che aggravare una situazione già compromessa e ora sarà difficile per la comunità internazionale inviare aiuti anche nelle zone controllate dai ribelli.
L'esercito utilizza regolarmente attacchi aerei, artiglieria e bombardamenti indiscriminati su una popolazione civile accusata di sostenere i ribelli. La cosa più grave è che i militari hanno da tempo preso di mira anche l’etnia maggioritaria bamar, e non solo i gruppi etnici minoritari degli altipiani in regioni come Kachin, Shan, Rakhine e Kayin. Ciò significa che il regime è in difficoltà crescenti con tutta la popolazione: la richiesta di aiuto alle organizzazioni internazionali con il sisma rivela tutta la sua debolezza.
Non va dimenticata anche la crisi dei Rohingya per la quale l’esercito birmano è stato accusato di genocidio. I militari controllano ancora la capitale e altre grandi città ma si trovano contro gran parte della popolazione, incluso quel ceto bamar da cui provengono gli stessi alti gradi. Al momento del golpe, vari gruppi armati delle minoranze si erano alleati nel National Unity Government (il governo in esilio dove siede anche il partito di San Suu Kyi nuovamente imprigionata), mentre altri erano rimasti ai margini.
Ma l'offensiva dei gruppi nord-orientali ha rimescolato le carte provocando la formazione della “Three Brotherhood Alliance” che, insieme ad altre forze minori della resistenza, ha conquistato diverse città, occupando numerose posizioni militari, catturando armi pesanti e interrompendo le rotte le commerciali con la Cina. I ribelli hanno preso il controllo di posti di confine in diverse aree a nord-est.
Per ora Pechino è rimasta a guardare, irritata di non essere stata informata del golpe, che ha bloccato i megaprogetti cinesi pianificati in Myanmar, necessari per bypassare il collo di bottiglia dello Stretto di Malacca: tutta la rete immaginata di porti, corridoi e pipeline è bloccata dalla guerra. Il terremoto viene a dissestare ulteriormente una situazione già altamente caotica (e letale) per i civili.
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