Gli Stati Uniti hanno annunciato il ritiro delle proprie truppe dall’Iraq, dopo dieci anni di presenza nel paese mediorientale. L’accordo raggiunto tra Washington e Baghdad prevede due fasi: la smobilitazione degli attuali 2.500 soldati entro il 2025 e la riorganizzazione delle operazioni anti Isis nel 2026.

Una simile svolta nella presenza Usa in Iraq avrà degli effetti anche sulle operazioni di contrasto al terrorismo tra Iraq e Siria, con risvolti pericolosi non solo per la sicurezza dell’area mediorientale ma anche per l’Europa. A trarre vantaggio dal ritiro americano sarebbe proprio lo Stato islamico, ancora attivo tra Iraq e Siria e nuovamente in crescita.

L’Isis si rafforza

Secondo i dati diffusi a luglio dal Comando centrale delle forze armate degli Stati Uniti (Centcom), gli attacchi lanciati dall’Isis in Siria e Iraq nella prima metà del 2024 sono il doppio rispetto a quelli condotti nel corso del 2023. Questa maggiore capacità di attacco dimostra che l’Isis continua a rafforzarsi, anche grazie all’instabilità in medio oriente.

Alle statistiche del Centcom hanno fatto seguito anche gli avvertimenti del comandante, il generale Michael Kurilla, che già a marzo si era espresso di fronte al Congresso contro il ritiro degli Usa dall’Iraq. Secondo il generale, lasciare il paese prima che le forze di sicurezza locali siano in grado di operare da sole

agevolerebbe il ritorno dell’Isis. Gli Usa, così come gli altri partner della coalizione Inherent Resolve, sono in Iraq sia per contrastare il terrorismo che per addestrare le truppe irachene.

Stando ai dati del Centcom, l’Isis dovrebbe avere circa 2.500 combattenti tra Siria e Iraq, quasi il doppio rispetto alle stime fatte a gennaio. Il numero però sarebbe ancora più alto secondo le Nazioni Unite, ossia tra le 3mila e i 5mila persone. Il report sottolinea anche che la Siria centrale è diventata «un centro logistico e operativo» dell’Isis.

Nei primi sei mesi del 2024, gli Usa hanno lanciato più di 200 operazioni anti-terrorismo con la collaborazione delle truppe irachene e di quelle a maggioranza curda del nord-est della Siria, uccidendo 44 combattenti, tra cui 8 persone in ruoli apicali, e arrestandone altri 258. Tutte queste stime però potrebbero essere al ribasso. Il Centcom inserisce nel proprio conteggio solo gli attacchi rivendicati dall’Isis, ma come spiega nei suoi report Aaron Zelin, esperto di jihadismo del Washington Institute for Near East Policy, dal 2020 lo Stato islamico ha deciso di non dichiarare la paternità di ogni singolo attacco.

Vuoto di potere

Come spiega a Domani Francesco Marone, ricercatore dell’Osservatorio Radicalizzazione e terrorismo internazionale dell’Ispi, il rischio che la situazione sul campo dopo il ritiro americano torni ad essere simile a quella di dieci anni fa è molto concreta.

Marone ricorda che la smobilitazione degli Usa dall’Iraq nel 2007 è generalmente considerata una delle ragioni della rapida ascesa del Califfato nel 2014. La situazione attuale è di minore instabilità rispetto a dieci anni fa, con l’Isis che ricopre al momento una posizione marginale in Iraq e Siria dopo la caduta del Califfato, ma la ripresa nell’ultimo anno degli attacchi e delle operazioni anti-terrorismo non fanno ben sperare.

«A fine agosto nel corso di un’operazione anti-terroristica sono stati arrestati 15 militanti di alto livello e si è capito che l’Isis ha la capacità di realizzare attacchi gravi in territorio iracheno».

Nonostante ciò, la linea scelta dal presidente americano Joe Biden è e resta quella del ritiro, anche in vista delle prossime elezioni e per spostare ingenti risorse economiche dall’Iraq verso aree del medio oriente che al momento hanno livelli di rischio maggiore per le truppe Usa. Senza contare la forte pressione arrivata dallo stesso governo di Baghdad, che preme da tempo per l’allontanamento degli americani dal proprio territorio in tempi rapidi.

Il rischio, sottolinea Marone, è che si lasci spazio a un’organizzazione che ha già dimostrato di essere in grado di resistere e di approfittare di vuoti di controllo per rafforzarsi. L’Iraq ha anche un alto valore simbolico e propagandistico per lo Stato islamico. Il paese – insieme alla Siria – rappresenta la culla del Califfato, ha una forte rilevanza nell’immaginario arabo e musulmano e i suoi leader, a partire dall’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, si sono dichiarati tutti iracheni. L’Isis dunque potrebbe reagire con entusiasmo al ritiro americano e usare questa svolta per fini propagandistici, pur non avendo alcun ruolo in questa decisione. Per Marone, nel medio periodo difficilmente l’Iraq tornerà alla situazione di caos e instabilità in cui era 10-15 anni fa, ma la smobilitazione americana ridurrà la pressione sull’organizzazione terroristica nell’area.

Gli effetti in Siria

Ma il ritiro Usa dall’Iraq avrà degli effetti negativi anche sulla vicina Siria. Al momento ci sono 900 soldati stanziati nell’area del nord-est, nota come Rojava e a maggioranza curda.

Qui le truppe americane conducono operazioni anti-terrorismo con il supporto delle forze locali curdo-arabe (Sdf), ma la mancanza di appoggio in Iraq potrebbe ridurne l’impatto. Come spiega Francesco Strazzari, docente di Relazioni internazionali della Scuola Sant’Anna, un simile scenario indebolirebbe la posizione dei curdi, già sotto pressione da parte del presidente siriano Bashar al-Assad e della Turchia. Il primo vuole da tempo riportare il Rojava sotto il controllo governativo, mentre Ankara punta alla distruzione dell’esperimento politico-sociale curdo tramite operazioni militari dirette e indirette, e fomentando ribellioni nei campi profughi e nelle carceri gestite dalle Sdf.

In Rojava sono ancora presenti migliaia di miliziani dell’Isis e sono stati istituiti dei campi anche per le loro famiglie. Una parte di questa popolazione viene dall’Occidente e dalla stessa Europa, ma continuano a vivere in un limbo dato che i governi non hanno intenzione di rimpatriare i loro cittadini. La situazione è particolarmente grave nel caso dei bambini nati sotto il Califfato. Molti di loro vengono indottrinati da quelle donne che ancora credono nel ritorno dello Stato islamico e che controllano alcune aree dei campi in cui sono detenute. Secondo un reportage di al-Monitor, alcune di queste donne sono anche riuscite a contrarre matrimonio tramite reti di supporto online, scappando dai campi del Rojava e arrivando persino in Europa tramite la Turchia.

I rischi per l’Europa

Il rafforzamento dell’Isis avrà delle conseguenze principalmente in medio oriente, ma nel lungo periodo rappresenta un problema di sicurezza anche per l’Europa.

«Le ondate di terrorismo», ricorda Marone, «si sono registrate quando la minaccia era più seria in medio oriente», quindi dopo l’invasione dell’Iraq del 2003 e poi nel 2014 con la proclamazione del Califfato.

Una crescita dell’instabilità in Iraq e Siria, quindi, rappresenta una minaccia anche per l’Europa perché l’Isis potrebbero riorganizzare degli uffici per le operazioni esterne dedicate proprio alla pianificazione di attacchi all’estero. Inoltre un rafforzamento dello Stato islamico nella sua culla storica e religiosa rinvigorirebbe il morale dei militanti jihadisti dopo una sequela di sconfitte, non da ultima la vittoria di talebani in Afghanistan. Questi ultimi sono considerati dei nemici dall’Isis, che proprio in Afghanistan ha la sua branca più aggressiva e organizzata e con una più ampia proiezione internazionale . L’Isis-K (o Isis Khorasan) è stato responsabile di gravi attacchi fuori dai confini afghani, come quello al Crocus City Hall di Mosca in cui sono morte 145 persone.

L’Isis-K, spiega Marone, è l’ala regionale più forte ma è subordinata allo Stato islamico centrale, ossia a quello che ha sede proprio tra Iraq e Siria. Un’organizzazione più forte al centro lo sarebbe anche nelle sue periferie, rappresentando quindi un rischio per l’Europa e il mondo intero.

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