Il dittatore si arrocca, ma i costi politici di una caduta del regime potrebbero essere troppo alti per Brasilia, che il 6 ottobre andrà alle elezioni amministrative
La decisione del Tribunale Supremo di Giustizia del Venezuela (tsj), organismo considerato non imparziale dall’Onu, ha ratificato la vittoria di Nicolás Maduro nelle presidenziali dello scorso 28 luglio, giustificando la mancanza di dati credibili con un «attacco cibernetico».
È un arrocco che chiude la partita elettorale e l’incertezza delle ultime settimane, e apre la successiva, quella del restituire al Venezuela un governo democraticamente eletto, sperando di non passare attraverso il caos o peggio, una guerra civile o un colpo di stato.
Alla luce della decisione del tsj, prende così ancor più rilievo l’unica proposta alternativa, presentata il giorno di Ferragosto dai presidenti di Brasile e Colombia, Lula da Silva e Gustavo Petro: una “road map” che passi attraverso un governo di coalizione, un’amnistia e un processo per arrivare a nuove elezioni garantite.
È un cammino arduo, e al momento rifiutato tanto dal governo Maduro che dall’opposizione, egemonizzata dalla destra di María Corina Machado, ma che ben rappresenta la fase storica dell’America Latina, con alcuni governi di sinistra che sono sì aggrediti dal revanscismo delle destre, ma usano tale aggressività per arroccarsi al potere, spesso personalistico e corrotto, in una crescente fragilità dello Stato, come quello di Maduro o quello di Daniel Ortega in Nicaragua, autoconvinti che dopo di loro il diluvio. È un cammino che al contempo chiama a misurare la capacità di leadership del Brasile di Lula.
Anche se la maggior parte degli attori internazionali, in particolare occidentali, non riconoscerà la sentenza del tsj, la conseguenza immediata è che Maduro resterà nel palazzo di Miraflores o meglio, nella base militare di Forte Tiuna, da dove esce sempre meno. Lo farà riconosciuto da due degli Stati con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza Onu, Cina e Russia, e molto probabilmente da un peso massimo dell’America Latina progressista, il Messico.
D’altra parte, per chi non si piega alla conclamazione di un regime autoritario a Caracas, a partire dall’opposizione interna, le armi sono spuntate e fin dal 28 luglio gli Stati Uniti stessi sono rimasti prudenti e si sono affidati alla troika progressista di Brasile, Colombia e Messico.
Questa si è però subito divisa sulla proposta di nuove elezioni considerata «imprudente» dal presidente del Messico uscente, Andrés Manuel López Obrador. Troppo vicina è anche la farsesca vicenda di Juan Guaidó, il presidente interino inventato nel 2019 da Donald Trump e dal segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luís Almagro, per pensare a un nuovo antipapa a Caracas nella persona di Edmundo González che si presume scippato della vittoria elettorale.
Nel paese, intanto, si alternano l’incrudelimento della repressione – sarebbero circa 2400 gli arrestati con 25 morti – a bagni di folla pacifici per entrambe le parti, come è accaduto domenica 18, in un gioco dove le libertà civili si allargano e si restringono nel caos di uno stato sempre più fragile.
Se il Messico può considerare Maduro come un male minore a Brasilia, sulla quale ci concentriamo qui, non si possono permettere, almeno apertamente, di fare lo stesso né per contingenza né per prospettiva geopolitica. La contingenza è il 6 ottobre.
Con ballottaggio a ridosso delle elezioni Usa, il Brasile è atteso da amministrative che per Lula sono quasi un mid-term. Saranno in palio 5500 sindacature, tra le quali quelle di San Paolo e Rio de Janeiro. L’opposizione bolsonarista è più che competitiva e lasciarle l’argomento dell’appeasement col “comunismo castro-chavista” è impensabile.
D’altra parte, pur dopo aver criticato Maduro per mesi, consegnare il Venezuela a una destra recalcitrante incarnata da Machado, vicina a Bolsonaro oltre che a Milei e Trump, segnerebbe per Itamaraty, la Farnesina brasiliana, la fine del progetto geopolitico del Brasile nel XXI secolo.
È l’integrazione latinoamericana con le relazioni Sud-Sud come elemento centrale per il superamento della subalternità e l’esercizio del ruolo di potenza globale, anche con Mercosur e Brics. L’uomo chiave è sempre Celso Amorim, per otto anni ministro degli Esteri di Lula e per tre anni alla Difesa con Dilma Rousseff. Ancora oggi, a 82 anni, è tra i diplomatici più influenti al mondo e assessore speciale del presidente Lula, inviato fin da luglio a Caracas.
Per Amorim, Caracas è parte integrante del progetto latinoamericanista disegnato a inizio secolo con Néstor Kirchner e Hugo Chávez. Inoltre un governo Machado nel paese caraibico stringerebbe da Nord il Brasile in una tenaglia di estrema destra.
A Sud c’è già Javier Milei a Buenos Aires e a Ovest il regime autoritario di Dina Boluarte a Lima, tenuta in piedi dall’ex dittatore e criminale contro l’umanità Alberto Fujimori. Insomma, se Nicolás Maduro non è difendibile, nel mondo visto da Brasilia le insidie di una sua caduta appaiono più preoccupanti.
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