A una settimana dalla sua autoproclamazione, mentre la comunità internazionale gli chiede di pubblicare tutti i verbali elettorali e si moltiplicano le proteste nel paese, Maduro si comporta da presidente in carica e mostra di voler resistere a ogni pressione. Alimentando i sospetti di truffa elettorale
È passata poco più di una settimana dal voto e dalla fraudolenta proclamazione della rielezione di Nicolas Maduro in Venezuela. Durante questi otto giorni, Maduro si è comportato da presidente in carica. Ha ringraziato i governi di Cina, Iran, Russia, Cuba, Mauritania che hanno riconosciuto il risultato elettorale; ha presentato un ricorso al tribunale supremo con lo scopo di certificare i risultati del Consiglio elettorale nazionale (Cne, l’organismo che gli ha riconosciuto la vittoria con il 51% dei voti).
E domenica scorsa ha presenziato una cerimonia di promozione delle forze armate, si è congratulato per il loro operato durante le proteste contro i risultati delle elezioni presidenziali. I soldati rimasti feriti durante le manifestazioni hanno ricevuto una decorazione da Maduro, il quale si è impegnato in azioni più efficaci per «sconfiggere e polverizzare» il tentativo di colpo di stato. La cerimonia è anche una prova di fiducia tra il governo e il potere militare. «Dubitare è tradimento», è stato uno degli slogan usati da Maduro durante la cerimonia.
Il dubbio che Maduro non è riuscito a fugare è che abbia vinto davvero le elezioni.
«Il voto è un processo del quale l’elezione è appena una parte», afferma Andrés Caleca, dirigente dell’opposizione venezuelana. Prima del voto, il governo ha inabilitato i candidati dell’opposizione, limitato il lavoro dei giornalisti, arrestato dirigenti dell’opposizione, limitato arbitrariamente il diritto di voto ai 4 milioni e mezzo di venezuelani residenti all’estero, impedito a quasi tutti gli osservatori internazionali indipendenti di verificare il voto.
E poi, dopo il voto, non ha consegnato i verbali elettorali completi e impedito ai leader dell’opposizione di assistere allo spoglio nella sede del Cne. Nonostante questo percorso a ostacoli, i cittadini hanno votato e secondo tutti i segnali, il risultato dichiarato dal Cne non è l’annunciata vittoria di Maduro.
Sul web, l’opposizione ha pubblicato i documenti completi dello scrutinio, secondo i quali Edmundo González Urrutia ha vinto con il 70%. L’opposizione è scesa in piazza sabato 3 agosto per respingere i risultati del Cne, i manifestanti hanno incollato sui muri di Caracas copie dei verbali del Cne. Sui manifesti, sono state aggiunte fotografie con i volti di alcune vittime della repressione.
Sul fronte internazionale, l’Unione europea ha chiesto al Cne di pubblicare gli atti elettorali, ma la richiesta europea è stata azzoppata dall’ostruzionismo del primo ministro ungherese Viktor Orbán, che ha posto il veto a una dichiarazione unitaria.
Stati Uniti e Canada hanno riconosciuto Edmundo González come presidente del Venezuela. La decisione di Washington ricorda il 2019, l’epoca dei due presidenti, con Maduro presidente de facto e Juan Guaidó riconosciuto da Stati Uniti e da altri paesi, uno stallo che non ha scalfito il potere di Maduro.
Agli Stati Uniti, Maduro ha rivolto la minaccia di stracciare gli accordi già firmati e cedere lo sfruttamento di petrolio e gas ai Brics – il gruppo fondato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – se le autorità statunitensi «commettono l'errore della loro vita e proseguono con i loro piani destabilizzanti».
In Venezuela, la società statunitense Chevron lavora con la compagnia statale Pdvsa in cinque progetti di produzione su terra e offshore, tra cui la cintura petrolifera dell'Orinoco, la più grande riserva di petrolio al mondo, lungo il corso del fiume omonimo.
Il Brasile porta avanti la propria strategia spingendo per «una soluzione latinoamericana», ha dichiarato Celso Amorim, consigliere diplomatico di Lula. «Soluzione latinoamericana» non vuol dire degli organismi regionali, come la Celac – la Comunità di Stati latinoamericani e dei Caraibi, paralizzata per le divisioni interne – o l’Organizzazione degli Stati americani (Oea), la cui ultima riunione è fallita, per la riluttanza dei Caraibi anglofoni nel sostenere una risoluzione sul Venezuela, paese che ha lasciato l’organizzazione nel 2017.
La “soluzione latinoamericana” è il tentativo diplomatico del Brasile, insieme a Colombia e Messico, tre paesi di peso regionale e con governi di sinistra, per una soluzione negoziata. Finora i tre si sono rifiutati di riconoscere Maduro, esortandolo a pubblicare tutti i verbali. A questo gruppo potrebbe aggiungersi il Cile, paese che il presidente brasiliano Lula visiterà proprio in questi giorni, dal 5 all’8 agosto.
Tutti questi paesi ospitano grandi comunità della diaspora venezuelana: due milioni e mezzo in Colombia, mezzo milione in Cile, trecento mila in Brasile. Tutti temono che l’aggravarsi della crisi comporti una nuova ondata migratoria.
Ma non è detto che la pressione internazionale abbia effetto. Maduro, al potere dal 2013, è sopravvissuto a trattative costruttive, pressioni diplomatiche, sanzioni, Obama e Trump. E ora, per difendere il potere, ha già fatto capire cosa intende fare: resistere, isolarsi a livello internazionale, aumentare la repressione sull’opposizione e provare a dividerla.
Il passare del tempo gioca in suo favore? Non è detto. Innanzitutto, perché finché non si pubblicano gli atti elettorali, si rafforza il sospetto di frode. Inoltre, la protesta interna potrebbe non spegnersi rapidamente. Ma il passare del tempo, può far si che il mondo si dimentichi del Venezuela. Di recente, María Corina Machado ha scritto sul Wall Street Journal: «Noi venezuelani abbiamo adempiuto al nostro dovere. Abbiamo votato per rimuovere il signor Maduro. Spetta ora alla comunità internazionale decidere se tollererà un governo palesemente illegittimo».
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