La maggior parte della regione, lontani i grandi trionfi della sinistra degli anni Duemila, è governata da progressisti che però non godono di splendida salute e sono chiamati ad affrontare crisi epocali come quella ambientale e quella migratoria. Perché mai Lula o Biden o Petro e domani Scheinbaum o Harris, non debbono pensare che Maduro sia il male minore?
A quattro giorni dalla chiusura dei seggi in Venezuela, nelle cancellerie dei tre grandi paesi latinoamericani a guida progressista, negli Usa e nell’Unione europea, prevale la cautela. Se nelle piazze la situazione non andrà fuori controllo, difficilmente Nicolás Maduro traslocherà dal palazzo di Miraflores a Caracas.
Brogli e violenze?
I brogli ci sono stati. Il Comitato nazionale elettorale (Cne) all’alba europea di lunedì ha fornito un solo dato, assegnando un’insperata vittoria a Maduro col 51 per cento dei voti contro il 44 per cento di Edmundo González, con tre milioni di voti svaniti nel nulla. Quindi il sito è andato offline, denunciando un attacco hacker, e se ne sono perse le tracce. Intanto l’opposizione giura di aver ottenuto il 73 per cento, un numero che pretende un atto di fede uguale e contrario a quello del Cne.
Nella notte di mercoledì 31, l’Organizzazione degli stati americani (Oea) ha respinto una risoluzione contro Caracas, voluta dal segretario generale Luís Almagro e dall’argentino Javier Milei con le astensioni decisive di Brasile e Colombia e l’assenza diplomatica del Messico.
Andrés Manuel López Obrador ha dichiarato: «Se non emergeranno fatti inequivocabili riconosceremo Nicolás Maduro». Una posizione analoga a quella di Lula da Silva, per il quale i fatti di Caracas «non sono gravi». Il colombiano Gustavo Petro, finora critico con Maduro, ora giustifica l’astensione alla Oea col rispetto della sovranità del Venezuela e invocando il dialogo tra governo e opposizione.
Non ci si inganni però: non c’è una vera differenza tra latinoamericani e occidentali. Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha usato parole misurate come Josep Borrell, l’ispano-argentino ministro degli Esteri uscente dell’Unione europea, equanime nel chiedere alle opposizioni di mantenere pacifiche le proteste e al governo di rispettare i diritti umani.
Insomma poco importa che il Centro Carter, che ha sempre certificato le vittorie di Chávez, oggi rifiuti di farlo. Il “pagherò” del governo di Caracas, che promette di mostrare le carte, pare bastare, e l’invito al dialogo ci riporta agli accordi delle Barbados di ottobre 2023 quando Norvegia, Barbados, Russia, Paesi Bassi, Colombia, Messico e soprattutto il governo di Joe Biden convinsero governo e opposizione a celebrare elezioni nella seconda metà del 2024. Obiettivo minimo, ma il 28 luglio la missione si è compiuta e quel che è successo a urne chiuse è altra storia.
Fallimenti e sfiducia
Salvo sorprese, nel labirinto della lunga crisi venezuelana, pochi vogliono impelagarsi come hanno fatto, sempre in modo disastroso, negli ultimi 25 anni. Nel lontano 2002 George W. Bush e José María Aznar riconobbero il golpe contro Chávez, poi sconfitto dalla sollevazione popolare.
Ci riprovarono nel 2019, quando la Oea inventò il presidente interino Juan Guaidó. Senza legittimità alcuna, secondo il Washington Post, la banda Guaidó stornò fino a 40 miliardi di dollari dalle casse pubbliche e spillò centinaia di milioni ai governi occidentali. Triste dirlo: mai negli ultimi 25 anni l’opposizione si è mostrata migliore del cosiddetto “castro-chavismo”.
Nessuno più teme un’esportazione della Rivoluzione bolivariana, come quando Hugo Chávez stravinceva (lui sì) le elezioni. Superato il tracollo economico e l’iperinflazione, la navigazione di un Maduro debole preoccupa Joe Biden meno di una vera crisi a tre mesi dalle elezioni Usa.
Non ultimo c’è il contesto latinoamericano. La maggior parte della regione, lontani i grandi trionfi della sinistra degli anni Duemila, è governata da progressisti che però non godono di splendida salute e sono chiamati ad affrontare crisi epocali come quella ambientale e quella migratoria.
In Perù e Argentina, con Dina Boluarte e Javier Milei, ci sono due governi di estrema destra, e il quadro boliviano, con le enormi riserve di litio, è complicato dalla guerra intestina tra il leader storico Evo Morales e il presidente Luís Arce.
Come in Europa la contesa non è più con la destra tradizionale ma con la demagogia fascistoide e trumpiana dei Milei, Bolsonaro o del cileno Kast. Una famiglia alla quale – nonostante oggi si mostri moderata – appartiene María Corina Machado che chiedeva proprio a Trump di invadere il Venezuela con i marines e le cannoniere come nel XIX secolo. Perché mai Lula o Biden o Petro e domani Scheinbaum o Harris, non debbono pensare che Maduro sia il male minore?
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