L’unico obiettivo del governo è «costruire uno stato con il minor numero possibile di palestinesi». Progetti di questo tipo «si basano sulla disumanizzazione delle popolazioni autoctone»
«È fondamentale tornare alla storia per comprendere questioni politiche contemporanee complesse come la Palestina. Il viaggio nel passato aiuta a sfatare miti e falsificazioni e a comprendere più a fondo le motivazioni alla base delle azioni dei popoli e delle organizzazioni. La natura dell’insediamento sionista in Palestina a partire dal XIX secolo e la sua ossessione per la necessità di avere una maggioranza demografica ebraica possono spiegare le politiche israeliane di oggi a Gaza. Allo stesso modo, la natura della resistenza palestinese all’idea di uno Stato ebraico nella sua patria spiega le sue azioni, comprese quelle del 7 ottobre 2023».
Lo storico più “odiato”
Ilan Pappé, praticamente da tutta la vita, torna alla storia per capire – e spiegare – il presente. Nato ad Haifa da genitori ebrei tedeschi, Pappé ha servito nell’esercito israeliano negli anni Settanta, prima di completare i suoi studi e diventare lo storico più odiato d’Israele.
All’inizio non era neanche così solo, anzi, negli anni Ottanta è stato uno dei simboli di quella “nuova storiografia israeliana” che ha iniziato a indagare sul movimento sionista e sui crimini commessi nel 1948 e prima della nascita dello Stato d’Israele. Convinto che solo dal riconoscimento della memoria – e del dolore – di tutti potesse nascere la pace.
I suoi libri sono tradotti, e molto letti, anche in Italia, dove proprio in questi giorni arriva Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina, Fazi editore. Un libro che, come spiega nell’introduzione, nasce proprio dagli eventi del 7 ottobre. «Non esiste al mondo un altro caso come quello della questione palestinese che sia così difficile da contestualizzare, ma proprio per questo bisogna insistere.
Anche davanti a episodi ridicoli, e gravi, di censura. Questa è una manifestazione dell’eccezionalità unica di cui gode Israele. Il suo potere consiste nel fatto che coloro che sostengono Israele non devono opporsi a una narrazione impegnativa; tutto ciò che devono fare è metterla a tacere».
Il dissenso impossibile
Ma non senza conseguenze interne, almeno stando a quello che analizza nel suo libro. «Se si leggono i recenti articoli di Haaretz, tra cui l’ultimo dell’ex capo di stato maggiore, il generale Dan Halutz», spiega lo storico israeliano, «si può notare che la mia analisi della disintegrazione di Israele e della fine del sogno sionista è condivisa da persone che in passato hanno ricoperto posizioni di potere nel sistema politico israeliano o sono noti opinionisti sull’argomento. Rappresentano un’ampia fetta della società che rinuncia a vivere in Israele (sappiamo che 700mila israeliani se ne sono andati dall’ottobre 2023), non vedendo alcuna via d’uscita o alternativa alla visione di un continuo conflitto e spargimento di sangue. In un paese che si è spostato sempre più a destra. Destra in termini israeliani significa diventare più religiosi, fanatici e razzisti. Quando siamo apparsi come movimento dei nuovi storici, era un periodo di relativa apertura e di ottimismo sul fatto che forse la pace fosse possibile. Ora siamo in un Israele che non cerca la pace, ma solo la guerra, per costruire solidamente un paese con il minor numero possibile di palestinesi. Per coloro che si oppongono dall’interno, anche se sono cittadini ebrei, è molto più difficile e pericoloso farlo rispetto ai nostri tempi. Per chi è cittadino palestinese di Israele è quasi impossibile».
Un processo che nella società israeliana è stato aiutato anche da una costante deumanizzazione dei palestinesi, dei quali molti israeliani non conoscono neanche le sofferenze, perché non le studiano e non le ascoltano. Il bando dell’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi ed è per molti di loro, nella Striscia di Gaza, l’unica fonte di sostentamento) da parte del parlamento israeliano è solo l’ultimo passaggio di questo processo.
La disumanizzazione
«Non c’è compassione tra gli ebrei israeliani verso la sofferenza dei palestinesi e sicuramente non c’è un riconoscimento della responsabilità di Israele per questa sofferenza», spiega Pappé. «È il risultato della disumanizzazione dei palestinesi fin dalle prime fasi del progetto sionista. Il sionismo è stato un progetto coloniale, e progetti come questo si basano sulla disumanizzazione delle popolazioni autoctone, che permette poi di eliminarle. L’intero sistema educativo e culturale in Israele è orientato a produrre tali atteggiamenti».
Un approccio che lui ha sempre negato nel suo lavoro, orientato a una documentata ricostruzione dei fatti per mettere Israele di fronte alla sua storia, alla nascita dello stato e ai traumi collettivi dei palestinesi. Ha pagato per queste sue posizioni, finendo per insegnare da anni all’Università di Exeter in Gran Bretagna e non in patria.
Nelle sue conclusioni Pappé indica come via d’uscita la necessità di cambiare il discorso su Israele e Palestina. In che modo? «Il movimento di solidarietà con i palestinesi sta già utilizzando un linguaggio e un discorso diverso da quello dei media e della politica mainstream. Non vede il sionismo come un movimento nazionale, ma come un movimento coloniale. Non vede il progetto sionista come il ritorno degli ebrei nella loro legittima patria, ma come un progetto di colonizzazione della patria di qualcun altro. Non vede la resistenza palestinese a questo progetto come terrorismo, piuttosto come anticolonialismo. Non vede Israele come l’unica democrazia del Medio Oriente, ma come uno Stato di apartheid, e non parla di pace, ma di decolonizzazione. Ci sono già milioni di persone che sostengono la Palestina. La domanda è: questo ampio sostegno nella società civile globale sarà notato, rispettato e agito dalle élite politiche? Finora non è successo. Speriamo che ciò accada presto».
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