L’Iran attaccherà o meno Israele? E lo farà direttamente o affidando la risposta ai suoi proxies? L’interrogativo aleggia da settimane sul Medio Oriente e non solo, in queste frenetiche, convulse ore, segnate da pressioni diplomatiche, consigli ignorati, dimissioni eccellenti, messa in sicurezza di comandi militari, popolazioni, persino opere d’arte.

La convinzione israeliana, e quella degli Stati Uniti, è che, nonostante le sollecitazioni internazionali – ieri quelle di Germania, Francia e Gran Bretagna, in queste ora ancora quelle degli Usa e dei paesi arabi – l’attacco sia imminente. E che a condurlo saranno gli iraniani insieme ai loro alleati, Hezbollah in testa.

Eppure, sino a pochi giorni fa, era la stessa intelligence di Tel Aviv a ritenere che a Teheran la discussione in materia fosse ancora «fluida», termine che, nel contesto, significa aperta.

Valutazione che rinvia alla domanda, essenziale anche in futuro, chi decide nella Repubblica islamica? È stata la guida suprema Khamenei a dare il via libera alla rappresaglia: nell’operazione in cui è stato eliminato il leader di Hamas, l’Iran ha infatti visto violare insieme sovranità e deterrenza.

Il punto, ormai, non è se ci sarà risposta, ma quando e se, come ormai si suol dire con diplomatico eufemismo, sarà «appropriata» o «sproporzionata». E, soprattutto, se la reazione di Israele – che Netanyahu e buona parte dei suoi ministri, a partire da quelli della destra estrema, vorrebbe assai forte – si limiterà a provocare seri danni all’Iran o, nella consueta politica del fatto compiuto, si spingerà sino a mettere a rischio il regime. Un crescendo che può innescare quel conflitto regionale che, a parole, tutti dicono di non volere.

I rapporti di forza

La natura della risposta di Teheran dipende dai rapporti di forza all’interno della Repubblica islamica, da molto tempo, non più esclusivo dominio della guida. L’indebolimento interno – larga parte della popolazione è, se non attivamente ostile, passivamente inosservante le indicazioni del regime, dimensione problematica per un potere nato all’insegna della mobilitazione totale – parallelamente allo sviluppo di una politica di potenza e militare che ha consegnato un ruolo sempre più rilevante ai Pasdaran, ha fatto si che sia impossibile ignorare le istanze, e il peso, dei Guardiani della rivoluzione nel circuito decisionale del sistema.

Nati come forza di difesa della Rivoluzione in chiave interna, i Pasdaran sono divenuti – grazie alla proiezione militare che hanno assicurato alla geopolitica dell’asse sciita che va da Teheran a Beirut, passando per Damasco e Baghdad – un potere sempre più decisivo negli equilibri del regime.

Se fino alle presidenziali del 2009, la Repubblica islamica è stata un’oligarchia di fazioni – quella dei conservatori religiosi, quella dei pragmatici, quella dei riformisti, quella radicale antimperialista e antiglobalista, da tre lustri, dopo il golpe nelle urne a favore di Ahmadinejad avallato da Khamenei che si è servito del presidente-reduce per combattere i riformisti – oggi ha assunto la forma di un potere bicefalo: quello della guida e del clero un tempo rivoluzionario che lo sostiene, quello dei Pasdaran, divenuti garanti della stabilità interna e della politica di potenza del paese. Se sino a qualche decennio fa a garantire legittimità al potere erano i “turbanti”, ora sono gli “elmetti” i custodi di ultima istanza del sistema.

Nelle mani dei Pasdaran

Oggi, dunque, Khamenei può decidere se rispondere o meno a Israele, ma a tracciarne ambiti, modalità, valutazione del rischio, intensità, saranno i Pasdaran. Non solo perché spetta concretamente a loro – nel mirino di Israele più volte in questi anni – colpire, ma perché sono gli unici a conoscere esattamente la possibilità di tenuta del sistema alla certa controreazione israeliana: sul piano militare, delle infrastrutture, della salvaguardia del sistema produttivo.

Sono i loro comandi a decidere quali bersagli, quali lanci concentrici, propri e degli alleati, su Israele, possano assicurare al contempo il ripristino del prestigio e della deterrenza irrisa e la sopravvivenza del regime che, in un futuro forse non troppo lontano, potrebbero guidare senza condividere il potere con i turbanti.

Il ruolo del governo

In tutto questo, che ruolo svolge il governo Pezeskhian? L’esecutivo è sotto scacco dei conservatori, riusciti a imporre la presenza di undici ministri su diciannove. Significative le fresche dimissioni del vicepresidente con delega agli Affari strategici, ed ex ministro degli Esteri, Zarif, che aveva istituito un comitato di transizione destinato a selezionare i candidati alla guida dei ministeri, con l’intenzione di portare al governo volti nuovi, donne, minoranze etniche, esperti e tecnici non allineati.

Formalmente Zarif è stato obbligato a dimettersi, perché non poteva avere il nulla osta di sicurezza, precluso, dal 2022, a quanti, come lui, hanno parenti stretti con la doppia cittadinanza: uno dei figli è nato negli Usa quando faceva parte della delegazione iraniana alle Nazioni unite. Uscita di scena che rivela lo scontro in atto tra chierici e militari da una parte e un riformismo tanto incolore quanto accerchiato dall’altra.

Probabile che Zarif, fautore di una linea dialogante con la comunità internazionale, Usa compresi, dissentisse anche da una riposta militare a Israele capace di mettere a rischio il paese e contrarre ulteriormente i margini di manovra dell’ingessato Pezeshkian.

Ma, tanto più in questi frangenti e a proposito di simili questioni, il sistema non ammette incrinature. Consentendo all’attuale presidente di partecipare alle elezioni e vincere si è già assunto un rischio che non intende più correre. Il fantasma del gorbaciovismo, in versione riformismo islamico, è, per i conservatori religiosi, lo spauracchio che cementa la costituzione materiale della Repubblica islamica.

La vittoria a sorpresa di Pezeshkian, che minaccia di mettere nuovamente in discussione l’agognata omogeneità tra vertici delle istituzioni a legittimazione religiosa (guida, Consiglio dei guardiani) e vertici delle istituzioni a legittimazione politica (presidente, parlamento) – equilibrio ritenuto essenziale dai conservatori per la tenuta del sistema – ha consegnato ulteriore influenza ai Pasdaran. È a loro che il regime guarda per garantirsi continuità. Ed è a loro, come ai tempi della guerra Iran-Iraq, che ora è affidata la salvezza, o il tracollo, del paese. Attaccando Israele aprono una porta che può precipitarli nel vuoto o condurli all’assalto al cielo del potere.

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