La caccia ai leader di Hamas sarà lunga; la guerra in Libano invece sarà inutile. Oggi l’arco sciita è più debole del vecchio fronte del rifiuto. Forse è l’ora di una svolta riprendendo la riflessione sul ruolo del sionismo e dello stato ebraico nel mondo
La caccia ai leader di Hamas e ai loro alleati durerà a lungo. Come dopo Monaco 1972, Israele non lascia mai impuniti gli autori e i mandanti degli attacchi subiti, inseguendoli per anni. L’attuale offensiva in Libano potrebbe degenerare in una guerra più vasta.
In tal caso rivedremo un vecchio film: le truppe israeliane che si spingono fino al fiume Litani; Hezbollah che tatticamente retrocede (lo sta già facendo); guerriglia e agguati; il gabinetto di guerra a Gerusalemme che discute se proseguire fino ai sobborghi di Beirut; bombardamenti; guerra in città; imboscate continue; molte perdite da entrambi i lati. Poi, dopo uno-due anni, si torna sulle posizioni di partenza. Tante morti, fiumi di profughi, immense distruzioni per niente.
L’ennesima guerra micidiale ma di fatto totalmente inutile: una furia fine a sé stessa. I motivi di tale incompiutezza sono concreti: Israele non può (e in fondo non vuole) occupare il Libano in pianta stabile né può riuscire a distruggere completamente il Partito di Dio, almeno finché durerà il supporto di Teheran.
Le guerre e le operazioni militari nel Libano sud non hanno mai dato risultati probanti, né sono riuscite a mettere in sicurezza l’alta Galilea. Se non ci riesce coi palestinesi, figurarsi se Israele potrebbe cacciare tutti i libanesi dalla regione spingendoli lontani dai suoi confini.
La sfida all’Iran
Aver ucciso Ismail Haniyeh in Iran è uno schiaffo ai Pasdaran e all’inviolabilità di Teheran, proprio nelle ore dell’insediamento del nuovo presidente riformista Masoud Pezeshkian. Tutto l’apparato militare e di sicurezza israeliano vuole dimostrare la propria superiorità cioè di poter colpire dovunque.
La guerra mediorientale si allarga: dallo Yemen alla Siria, a Beirut e forse all’Iran stesso. Ma l’arco sciita è più ristretto e meno potente del vecchio fronte del rifiuto all’epoca dell’Olp di Arafat, che andava da Algeri a Baghdad riuscendo a coinvolgere anche i paesi moderati come la Tunisia.
Oggi molti stati arabi restano alla finestra e ad alcuni non dispiace che Israele colpisca gli iraniani o i loro associati. Soprattutto gli stati del Golfo, Arabia Saudita in primis, fanno un silenzioso tifo perché Teheran perda slancio e influenza. Forse solo il Qatar scommette ancora sul binomio Hamas-sciiti ma restando abbastanza marginale.
I “sette fronti”
Le forze armate israeliane ne approfittano ma non hanno una strategia per il dopo: non esiste un disegno politico di Israele per riavvicinare gli stati arabi limitrofi né per riappacificarsi. Non esiste nemmeno una vaga idea di come costruire un’architettura di sicurezza per tutta la regione.
La sola soluzione invocata un po’ da tutti gli israeliani è la guerra a oltranza: contro Hamas, contro l’Iran, il Libano degli Hezbollah, gli Houthi dello Yemen, il jihadismo (nemmeno tutto), la Siria con i suoi molteplici mostri ecc. Ora anche contro la Turchia di Erdogan che ha alzato i toni.
Sarebbero i “sette fronti” invocati da Benjamin Netanyahu dopo il 7 ottobre. Il problema è che senza strategia politica di supporto tutte le operazioni militari sono destinate a restare prive di effetto, in altre parole a rivelarsi inutili a lungo termine, perché alla fine Israele è costretta a doverle ripetere, ripetere e ancora ripetere all’infinito.
L’unico risultato tangibile è quello di aumentare l’odio contro di sé. Tra boria e rassegnazione, gli israeliani dicono a chi li critica che non c’è altra strada, soprattutto perché si sentono avversati un po’ da tutto il mondo e hanno la convinzione di non avere (mai avuto?) amici sinceri, a parte forse gli americani ma anche lì le cose stanno cambiando.
Un’esistenza di paure
Il clima di astio che cresce contro Israele pare non preoccupare questa generazione ma diverrà certamente un problema per quella successiva. Soprattutto sta obbligando Israele a rimanere in situazione emergenziale permanente: un paese in continua crisi patologica, costretto a un’esistenza di paure persistenti e reazioni eccessive.
Per quanto si può vivere così? Israele pensa di farlo già da migliaia di anni ma, seppur questo è stato vero in passato, ora la questione si pone in ben altro modo. Israele non è destinato a scegliere tra la vita e la morte; tra soccombere o sopravvivere distruggendo i propri nemici. Questo perché paradossalmente i suoi avversari sono diminuiti e sono molto più deboli.
Salvo eccezioni, i paesi arabi sono ormai propensi a un accordo politico che inizi con il riconoscimento dell’esistenza dello stato di Israele. I più ricchi e potenti tra di essi non finanziano più l’estremismo palestinese, sia laico sia fondamentalista. Resta solo un Iran certo pericoloso ma indebolito e senza sbocchi. Perché allora non approfittarne con prudenza? Continuare a vivere nel parossismo dell’accerchiamento non è una soluzione e rende ciechi di fronte ai cambiamenti in atto. Il mondo cambia, cambia anche il mondo arabo. Basta osservare le manifestazioni filopalestinesi: sono più frequenti in Occidente che in Medio Oriente.
Eterni nemici
Potrebbe essere questo il momento della svolta, come gli Accordi di Abramo già prefiguravano. Tra l’altro nessuno stato arabo che li aveva negoziati prima della ripresa della guerra contro Hamas, ha ritirato la sua firma. La forza propagandistica dell’antisionismo arabo-musulmano non è mai stata così fiacca.
Il mantra “Israele ha diritto di difendersi”, pur giusto e giustificabile, mostra ormai i suoi limiti: una ripetizione infinita di ciò che è stato già tentato. Come si usa dire: è assurdo pensare di ottenere un risultato diverso da azioni già compiute più e più volte. Basterebbe chiedere: “Attaccare, reagire, difendersi, vendicarsi, d’accordo…. ma poi…?”.
È qui che si arena ogni idea, ogni pensiero, ogni politica. È qui che si innesca la crisi dell’idea stessa di Israele nel mondo: quella di esistere per la guerra permanente in mezzo a eterni nemici. Seppure la storia ha messo Israele e gli ebrei a dura prova, potrebbe essere giunto il momento per superare tale fase. È necessaria una nuova visione sul sionismo, che diventi una riflessione sul ruolo di Israele nel mondo, sul suo posto tra le nazioni.
Parafrasando Limes potremmo chiederci: “A cosa serve Israele?”. Più in profondità si tratta di proseguire il pensiero biblico e spirituale su Israele. Una risposta che spesso viene data è: lo stato ebraico serve soprattutto agli ebrei, a difendere la loro presenza nella storia, a proteggerli dai nemici e mantenerli in vita. Tuttavia nel tempo numerosissimi intellettuali ebrei (e anche qualche non ebreo), prima e dopo la nascita dello stato, si sono posti la domanda sul senso globale del sionismo e di Israele, sulle conseguenze dirette della sua esistenza per gli altri.
Martin Buber, ad esempio, diceva che l’esistenza di Israele diveniva un messaggio per tutti, una vocazione, uno spirito fondato su una fede che la trascende e parla oltre sé. Riprendere tale riflessione non potrà che giovare a tutti e aprire nuove prospettive.
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