L’opinione pubblica comincia a dubitare che la strategia di uccidere uno alla volta i leader di Hamas possa portare a una soluzione per liberare chi si trova nella Striscia
Il comandante dell’ala militare di Hamas Mohammed Deif, detto “il fantasma” e secondo nella lista dei maggiori ricercati dall’esercito israeliano, sarebbe stato eliminato nel raid israeliano dello scorso 13 luglio a Kahn Younis, nel sud di Gaza. L’Idf ha rilanciato la notizia ieri e, dopo diverse ore, è arrivata la smentita dell’organizzazione.
Non è un fatto irrilevante perché ora, dopo l’uccisione del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, la guerra tra il governo di Tel Aviv e l’organizzazione terroristica si gioca anche su questo tipo di propaganda.
Dopotutto l’obiettivo dichiarato di Benjamin Netanyahu è stato, dal 7 ottobre in poi, quello di distruggere Hamas. E l’eliminazioni dei suoi vertici, ovunque essi si trovino, è elemento fondamentale per raggiungere la «vittoria».
Uno alla volta
Per capirlo basterebbe la notizia che la bomba che ha ucciso Haniyeh, secondo quanto ha riportato la giornalista Farnaz Fassihi del New York Times, era stata nascosta circa due mesi fa nella struttura, gestita e protetta dalle Guardie della Rivoluzione Islamica, il luogo più sicuro dopo Doha dove Israele non opera per evitare frizioni con un mediatore dei negoziati. Insomma, un’operazione pazientemente pianificata. All’appello manca Yahya Sinwar, capo politico di Hamas nella Striscia e regista del progrom di ottobre. Ma nel frattempo Israele ha eliminato circa 200 dirigenti del gruppo.
«L’operazione mirata che è stata effettuata è stata resa possibile dalla migliore cooperazione tra l’Idf e lo Shin Bet, e coloro che li dirigono», ha scritto il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant. «I risultati dell’operazione chiariscono che Hamas è un’organizzazione in disintegrazione e che i terroristi devono scegliere tra la resa e la morte», ha proseguito. «Il sistema di sicurezza perseguirà i terroristi di Hamas, dagli ideatori del massacro del 7 ottobre agli autori, e non si fermerà finché la missione non sarà completata».
Una strategia, molti dubbi
Ma molti in Israele dubitano che la strategia delle eliminazioni mirate, approvata dopo il massacro alle Olimpiadi di Monaco da Golda Meir, possa davvero funzionare tenendo conto che, ad esempio, i servizi segreti hanno inferto simili colpi decenni fa con Rantissi, Yassin, al-Ayyas, che non erano di spessore minore di Haniyeh, Deif o anche Sinwar, eppure la questione Hamas non è stata risolta.
Inoltre Israele ha eliminato, nel 1992, il predecessore di Nasrallah, Abbas Musavi, ma anche questa azione non ha risolto la questione Hezbollah e il suo radicamento nella società libanese devastata da una crisi economica e sostenuta dalle rimesse di chi vive all’estero.
E ora, dopo l’eliminazione di Haniyeh e del responsabile militare di Hezbollah a Beirut, Fuad Shukri, non sembra che molto stia cambiando. Nasrallah, il leader di Hezbollah, ha negato che la pressione militare spingerà alla resa Hamas e Partito di Dio.
«L’aspirazione di Benjamin Netanyahu è che Hamas gli dica: "Ecco qui gli ostaggi e le armi”. Questo non accadrà. Non ci arrenderemo», ha detto. Forse sono solo parole di circostanza dopo aver subito un duro colpo militare, ma l’opinione pubblica israeliana è stanca e sembra sia più preoccupata di cosa tutto questo provocherà nella gestione degli ostaggi e del conflitto interminabile a Gaza.
Accordo in salita
Sono trascorsi 300 giorni dal massacro del 7 ottobre e ieri il presidente israeliano Isaac Herzog ha invitato i leader mondiali a lavorare per liberare coloro che sono ancora nelle mani di Hamas.
Ma la politica di uccisione dei negoziatori di Hamas confligge con le aspettative di coloro che, in Israele e alla Casa Bianca, chiedono la restituzione degli ostaggi e la fine delle ostilità.
Manifestanti hanno bloccato l’autostrada Ayalon a Tel Aviv, chiedendo subito un accordo per liberare le 111 persone che si trovano ancora nella Striscia, anche se decine di loro sono considerati morti dal Mossad.
Ieri Egitto e Qatar hanno avvertito che la politica degli attacchi israeliani mirati compromette gli sforzi compiuti dai mediatori per raggiungere un’intesa.
Secondo l’Afp, giovedì il ministro degli Esteri giordano, Ayman Safadi, ha definito Israele uno «stato canaglia» a cui bisogna impedire di «imporre altre guerre e distruzioni» in Medio Oriente. La Giordania è stato un paese alleato quando l’Iran ha scatenato la sua prima reazione missilistica dopo che Israele aveva colpito un suo consolato a Beirut. Ora questi legami sembrano allentarsi.
Il rischio è di perdere l’appoggio dei paesi arabi moderati e la spinta a continuare con l’allargamento degli accordi di Abramo all’Arabia Saudita. Gli Stati Uniti hanno esortato Israele a sbloccare le consegne di aiuti a Gaza, a evitare vittime civili e ad astenersi dal lanciare un’offensiva militare su larga scala a Rafah, ma i loro sforzi diplomatici hanno prodotto pochi risultati. Il segretario di Stato Antony Blinken ha ribadito la volontà di trovare una intesa per liberare gli ostaggi e arrivare a un cessate il fuoco, ma finora senza successo.
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