L’Iowa è uno stato particolare, e non solo perché la sua popolazione suina supera di oltre sette volte quella umana. È particolare perché è uno stato politicamente insulare, le sue dinamiche interne non sono molto indicative di quello che accade negli stati intorno e gode di una particolarissima attenzione di candidati, sondaggisti e strateghi politici soltanto per il privilegio di essere lo stato che inaugura il confronto delle primarie (tecnicamente è il primo “caucus”).

Insomma, ci sono diverse ragioni che suggeriscono di non leggere troppo e troppo in fretta nei dati del sondaggio commissionato dal Des Moines Register e che dà Kamala Harris davanti a Donald Trump di 3 punti nello stato, risultato che l’universo elettorale in spasmodica attesa del voto di martedì ha accolto come l’avvistamento di un cigno nero, mentre nero è ancora il linguaggio di Trump: «Non mi dispiacerebbe se sparassero ai media».

L’Iowa non è fra i sette stati contendibili e vale soltanto 6 grandi elettori (ce ne vogliono almeno 270 per vincere). Nessuno dei due candidati ha dedicato tempo ed energie a uno stato che nelle ultime tornate è diventato saldamente repubblicano, con Trump che ha vinto di una decina di punti sia nel 2016 che nel 2020.

In passato i democratici sono riusciti a conquistarlo (il caso più clamoroso è la vittoria a valanga di Barack Obama nel 2008), ma quello era appunto il passato, e nessuno durante la campagna si è curato molto di quel fazzoletto che confina con il conteso Wisconsin e allo stesso tempo è lontanissimo dalle sue logiche sociali e politiche.

Per questo il sondaggio pubblicato nella notte fra sabato e domenica è stata una scossa elettrica ad alto voltaggio per tutti e un nuovo generatore di speranza per Kamala Harris, che – pur nell’ambito di una corsa che i numeri danno in sostanziale parità – nelle ultime settimane sembra aver perso terreno rispetto a Trump negli indicatori non misurabili come entusiasmo, capacità di penetrazione, coinvolgimento del proprio elettorato.

Sondaggio leggendario

Il ragionamento è chiaro: se perfino l’Iowa, dove nessuno guardava, può incredibilmente spostarsi a sinistra, chissà cosa può succedere negli stati dove effettivamente la battaglia è aperta.

Questo ha indotto alcuni democratici a costruire entusiastiche proiezioni nazionali basate sull’ipotesi che qualche clamoroso cambiamento del vento politico generale sia sfuggito a tutti tranne ai cittadini del placido Iowa.

Allo stesso tempo, quello che induce a non derubricare questo sondaggio nella categoria del “rumore”, come dicono gli statistici, è la riconosciuta credibilità di Selzer & Co., l’azienda che conduce questi studi. I sondaggi di Selzer sono guardati con aspettative oracolari perché tendono a sbagliare poco. Nelle ultime cinque elezioni presidenziali l’ultimo sondaggio prima del martedì del voto ha indicato correttamente chi si sarebbe aggiudicato l’Iowa quattro volte su cinque, e quando ci ha preso lo ha fatto con un margine di errore del 3,1 per cento. Precisione rara.

Tutto il mondo dei sondaggisti stima le valutazioni di Selzer e se questa volta non guardava con particolari aspettative all’ultimo rilevamento è perché tutti erano sicuri che avrebbe confermato quello che aveva misurato a settembre, quando Trump era in vantaggio di 4 punti nello stato. Per non parlare poi dei numeri di giugno: il candidato repubblicano era avanti di 18 punti su Joe Biden, avviato allora verso la ricandidatura.

La presidente dell’istituto, J. Ann Selzer, non ha nascosto la sorpresa: «È impossibile per chiunque dire che questo dato era prevedibile. Lei ha chiaramente preso la testa della corsa». Anche la metodologia è solida. Selzer ha intervistato 880 persone fra gli elettori cosiddetti “likely”, cioè gente che ha già votato per posta oppure andrà con ogni probabilità a votare martedì di persona al seggio. Secondo Selzer sono le donne, in particolare quelle di una certa età e politicamente indipendenti, che stanno cambiando la dinamica elettorale in favore di Harris.

Chi vuole leggere nei numeri dell’Iowa una tendenza più ampia non manca di far notare che i sondaggisti di Selzer su altri stati hanno avuto in passato margini di errore anche più bassi. Ad esempio, Selzer aveva visto le vittorie di Trump in Michigan e Wisconsin quando la maggior parte sosteneva che invece il “blue wall” dei democratici nel Midwest avrebbe tenuto.

Gli altri dati

Non vengono registrati scossoni clamorosi, invece, nell’ultimo sondaggio del New York Times in collaborazione con il Siena College, altro filone autorevole di studi. I sette “swing states” sono dati sostanzialmente in parità (all’interno del margine di errore), ma Harris sta guadagnando in North Carolina e Georgia, mentre Trump ha azzerato il vantaggio dei democratici in Pennsylvania.

Sono spostamenti microscopici ma significativi per la strategia elettorale: la strada scelta da Trump è conquistare le abbordabili North Carolina e Georgia e costruire su quella base, mentre Harris ha puntato tanto (tutto? troppo?) sul Midwest, cosa che in termini numerici si traduce nel sostanziale obbligo di conquistare la Pennsylvania. Senza quella, la strada per arrivare a 270 grandi elettori è complicata.

E in tutto questo ricamare sui numeri, il partito repubblicano ha lanciato negli ultimi giorni quasi 40 sondaggi condotti da istituti vicini alla destra che mostrano, con gradazioni differenti, che Trump ha già la vittoria in tasca. Non sono scrupolosi studi condotti da istituti di riconosciuta credibilità, ma sondaggi assai poco rigorosi che hanno come scopo principale quello di convincere il popolo della destra che Trump è nettamente avanti. Sarà così più facile convincerlo, in caso di sconfitta, che le elezioni sono state rubate.

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