Parla l’eliminazione del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh, così come quella, avvenuta poche ore prima a Beirut, di Fuad Shukr, consigliere militare del leader di Hezbollah Nasrallah. E dice molto sui crescenti rischi di una situazione che non pare più reggere i tentativi degli attori coinvolti, e dei loro alleati internazionali, di tenere in forma la guerra. Così come delle reali intenzioni di Benjamin Netanyahu su Gaza e sugli ostaggi nelle mani di Hamas.

Mentre, dopo l’omicidio mirato di Shukr, le cancellerie internazionali sono ancora impegnate a evitare che il conflitto mediorientale deflagri coinvolgendo il Partito di Dio, e di riflesso l’intero Libano, Israele uccide Haniyeh, a Teheran per la cerimonia d’insediamento del nuovo presidente d Pezeshkian e reduce da un colloquio con la guida suprema Ali Khamenei.

Segnale politico e militare chiarissimo, quello inviato da Israele a chi considera un Nemico strategico ed esistenziale: possiamo colpire quando, dove, e chi vogliamo, è il senso del messaggio, assai poco subliminale, rivolto ai vertici politici e militari della Repubblica islamica, Khamenei compreso.

Esibizione di potenza

Esibizione di potenza che presuppone non solo una evidente superiorità tecnologica – la capacità di confondere e bucare, senza troppi problemi, il sistema di difesa aerea del paese –, ma anche l’indicibile: seppure lanciato da fuori, un attacco di quel tipo è realizzabile se la rete locale dell’Istituto, il Mossad, fornisce informazioni attendibili dal terreno, non solo mediante gli occhiuti sguardi di satelliti e droni.

Operazione che, più ancora della reazione di primavera all’attacco iraniano, scarica sulla Repubblica islamica, oltre che l’ordigno che ha straziato Haniyeh, il peso della riaffermata deterrenza israeliana, fatta selettivamente valere nell’occasione.

Al contempo, l’eliminazione del capo politico di Hamas, rende palese che Israele non persegue alcuna soluzione negoziale per Gaza e che, come da tempo sospettano i loro familiari, gli ostaggi prigionieri nella Striscia rappresentano, nonostante le reiterate smentite, una vicenda dolorosa ma secondaria rispetto agli obiettivi strategici perseguibili con la guerra.

Altrimenti, come affermato l’emiro del Qatar al Thani, impegnato per conto degli Usa e dell’organizzazione islamista palestinese a tessere le fila del negoziato, non si brucia – uccidendo il principale negoziatore del gruppo nemico – una trattativa proseguita anche nei giorni scorsi a Roma alla presenza dei responsabili dell’intelligence di Israele, Stati Uniti e Egitto. Non occorre essere raffinati diplomatici per comprenderlo.

Il fatto compiuto

Com’è possibile, dopo quello che Hamas ha definito il «martirio» di Haniyeh «per opera del sionismo», che Hamas possa riprendere il negoziato sulla tregua? Si può immaginare, di fronte a quanto accaduto, che il duro Sinwar conceda il via libera per timore di fare la stessa fine? Morire nel «martirio», come ha ricordato, uno dei figli superstiti dell’ormai ex-leader politico del gruppo, è una delle massime aspirazioni per chi ha imboccato il sentiero del jihad, difensivo o offensivo che sia.

È chiaro che, in simili frangenti, la possibilità che le trattative ricomincino a breve sono nulle. Uno schiaffo inferto, ancora una volta, da Bibi a Joe Biden, che pure vi ha puntato molto e ha ricevuto l’inviso premier israeliano solo pochi giorni fa a Washington, oltre che a Kamala Harris, che non può permettersi di perdere l’elettorato giovanile e quello musulmano pro-pal negli stati decisivi per l’esito della competizione presidenziale.

I negoziati erano già nell’impasse, prima della duplice eliminazione mirata, per responsabilità di Netanyahu ma, di riflesso, è ora sempre più a rischio la sorte degli ostaggi, ormai in condizioni limite nei tunnel di Gaza. Arduo che vengano rilasciati in simili frangenti. E dal momento che pare impensabile che non sia stato valutato l’impatto sulla loro condizione di simili operazioni, la scelta di Bibi appare chiara.

Così come la sua propensione per la politica del fatto compiuto: non a caso gli Stati Uniti fanno sapere che non sono stati né coinvolti, e questo nella circostanza pare credibile, né informati, e questo è assai preoccupante, perché significa che il loro principale alleato mediorientale, cui garantiscono denaro, armi, assistenza militare e tecnologica, è fuori controllo.

Amara ammissione per una potenza che si vuole ancora capace di imporre un ordine al mondo. Linea, quella di Netanyahu, che si sostanzia nella conclusione: la guerra va avanti, e con essa, il suo governo. Nella, sia pur ora meno certa possibilità, che a novembre alla Casa Bianca ci sia Donald Trump.

Uno scontro ineluttabile?

In questa situazione che farà l’Iran? Come reagirà all’umiliazione subita: Israele non è il solo paese dotato di una dottrina strategica fondata sul principio dell’attacco contro chiunque ne minacci sovranità e integrità territoriale.

Per restare fuori dal conflitto, Teheran ha sin qui puntato sul sostegno a Hamas attraverso i proxies, Ma di fronte a quanto accade, politicamente oltre che militarmente, nel campo del conflitto, quella strategia rivela i suoi limiti. Come, d’altro canto, segna il passo la linea di chi, nella comunità internazionale, aveva puntato sulla guerra regolata, governata da informali consultazioni sugli obiettivi da colpire senza generare controreazioni incontrollabili.

Si comincia a capire che quei margini, esplorati nel continuo tentativo di consentire agli attori coinvolti di salvare la faccia al prezzo di qualche missile, e qualche vittima, qua e là, si stanno esaurendo. Le linee rosse, sempre più spostate in avanti, si assottigliano: la separazione tra conflitto locale e uno assai più vasto, destinato a bruciare la regione, è sempre meno netta.

Non sempre, infatti, il tempo depotenzia le ostilità. In certe situazioni, e questo è il caso, amplifica la percezione dello scontro ineluttabile. Sensazione che pervade anche le popolazioni della regione.

Khamenei annuncia ora un’inevitabile vendetta e a Teheran si ventilano «operazioni speciali». Dai tempi e i modi in cui verranno attivate – colpiranno il territorio israeliano o obiettivi all’estero? oppure la reazione sarà affidata al fido Hezbollah, con il rischio che a deflagrare sia lo stremato Paese dei Cedri? – si capirà quanto funzioni ancora la terapia a basso dosaggio contro la divorante febbre del conflitto.

In autunno Teheran riteneva la guerra senza la guerra, appaltata agli alleati, la carta migliore: è una prospettiva ancora possibile dopo i due raid israeliani? Come la deterrenza, anche l’onore può indurre a mostrare i muscoli. Con tutte le conseguenze del caso. E quale sarà la reazione del Partito di Dio nel caso l’Idf cercasse di spingere le milizie con il vessillo giallo oltre il Litani? Se Israele entrasse in Libano, l’Iran resterebbe a guardare? L’incendio in corso pare sempre più fuori controllo.

© Riproduzione riservata