La fine del colonialismo, di un’ingiustizia lunga decenni e il trionfo ai danni del più forte. Oppure un harakiri geostrategico, potenziale innesco per effetti a catena dirompenti. A seconda del punto di vista, l’accordo del governo britannico per restituire le isole Chagos alla Repubblica di Mauritius può assumere contorni diversi.

Perché Londra ha ceduto le Chagos

Dal 1968, quando le Mauritius conquistarono l’indipendenza da Londra, l’arcipelago era conteso. Tre anni prima, prevedendo il raggiungimento dell’autonomia dell’isola africana, Il Regno Unito creò appositamente il Territorio britannico dell’oceano Indiano, staccando le isole Chagos dall’amministrazione unica con le Mauritius. E sulla più grande di loro, Diego Garcia, qualche anno dopo Londra realizzò un’importante base militare insieme agli Stati Uniti.

Per farlo, migliaia di abitanti furono cacciati, costretti a lasciare la propria terra per far sì che l’atollo fosse riservato solo alla struttura militare.

La diatriba con Port Louis, capitale delle Mauritius, è andata avanti per quasi 60 anni, in cui nel frattempo l’Onu ha dichiarato «illegale» la sovranità britannica. L’esecutivo di Keir Starmer, in breve tempo, vi ha voluto porre fine. Lo ha fatto negoziando ciò che era sacrificabile con ciò che non lo era.

Ha concesso, sì, la sovranità delle isole Chagos all’ex colonia, ma ha mantenuto il controllo della parte più importante: la base militare. Il presidio di Diego Garcia, affacciato sulla regione dell’Indo-Pacifico, sarà per i prossimi 99 anni ancora nelle mani anglo-americane.

Le divisioni interne

Le organizzazioni di origine chagossiane hanno protestato per essere state tenute fuori dalle trattative, a Port Louis si esulta per essere riusciti a imporsi contro la Gran Bretagna, mentre media e politici inglesi sono divisi.

I laburisti difendono una scelta definita inevitabile, dettata dal bisogno di superare retaggi del passato, pur senza compromettere gli interessi nazionali e garantendo «una relazione a lungo termine tra il Regno Unito e le Mauritius, stretto partner del Commonwealth», come detto dal ministro degli Esteri David Lammy.

Dall’altra parte, alcuni media di area Tory e molti esponenti conservatori, sempre mal disposti a dichiarare conclusa l’epoca imperiale di Londra, giudicano in maniera opposta l’operazione. I candidati in corsa per la leadership per il dopo Rishi Sunak hanno criticato aspramente Starmer.

«Una vergognosa ritirata che mina la nostra sicurezza e lascia i nostri alleati esposti», ha affermato Tom Tugendhat, mentre l’ex ministro James Cleverly ha attaccato il gabinetto del premier, definendolo «debole». Nonostante i negoziati fossero iniziati proprio con Cleverly al governo.

Le conseguenze sui territori d’oltremare

Non è solo questione di rivalità politica a far protestare parte della società britannica. Il timore è che la concessione delle isole Chagos possa essere un segnale di apertura anche per gli altri territori d’oltremare britannici. E di debolezza per chi spera in un loro distacco da Londra.

Il primo è quello delle Falkland su cui la partita tra Regno Unito e Argentina non si è mai conclusa definitivamente. Buenos Aires ha preso la palla al balzo, dicendosi soddisfatta del passo compiuto da Starmer e confermando la promessa di riconquistare la sovranità delle isole per cui nel 1982 fu combattuta una vera guerra. Rivendicazioni subito frenate dal governatore delle Falkland, che ha rassicurato riguardo «l’incrollabile» impegno britannico sulle isole dell’Atlantico, sottolineando la diversità con l’arcipelago delle Chagos.

Ma il faro si è acceso anche su Gibilterra, contesa con la Spagna, sui vari possedimenti britannici caraibici (come Anguilla, le Cayman o Montserrat) e sull’area delle basi mediterranee di Akrotiri e Dhekelia, a Cipro, ancora in controllo di Londra. Lasciti derivanti dall’impero britannico, mai resi indipendenti e mai entrati in quell’organizzazione ancora in vita del Commonwealth che conta più di 50 stati, autonomi ma sotto la corona britannica.

Territori che Downing Street - «La sovranità britannica sulle Isole Falkland o Gibilterra non è negoziabile», ha spiegato il portavoce del primo ministro – vuole conservare perché essenziali per la proiezione globale del paese, quella Global Britain già cara ai Tories.

La chiave anti cinese degli Usa

La divisione all’interno del mondo britannico era scontata, specie con i conservatori che devono darsi da fare per scrollarsi di dosso l’umiliazione alle ultime elezioni. Più rilevanti, tuttavia, sono le reazioni provenienti dagli Usa, l’altro attore interessato.

Per il Telegraph, sarebbe stata proprio la Casa Bianca a spingere per un accordo con Mauritius, in modo da anticipare una possibile sentenza della Corte internazionale di giustizia che poteva far perdere al Regno Unito il controllo sulle isole e chiudere la base aerea.

Il presidente Joe Biden ha applaudito «lo storico accordo» sulle Chagos, ma in realtà – almeno secondo il Times – negli ambienti statunitensi ci sarebbe stata irritazione per la scelta di Londra. Il quotidiano, infatti, ha riportato di avvertimenti lanciati negli scorsi mesi dagli Stati Uniti all’indirizzo di Starmer per non cedere le isole, parlando poi di «sfida agli Usa», da parte del premier laburista.

Le azioni di Washington in quella regione vanno viste esclusivamente in chiave anti cinese. Il presunto malcontento degli Usa, al netto delle dichiarazioni diplomatiche, deriverebbe dalla paura di favorire Pechino abbandonando gli avamposti “occidentali” in quello spicchio di mondo. Proprio in un momento storico in cui l’aggressività della Cina si è palesata non solo nell’Indo-Pacifico, ma anche in Africa e altrove. Tanto più che Pechino negli ultimi anni ha intrecciato rapporti sempre più stretti con le Mauritius, aumentando gli investimenti sull’isola. Da qui, gli avvisi al suo storico alleato.

Tuttavia, per la prima volta dal 18esimo secolo il sole tramonterà su ciò che rimane del vecchio impero britannico. La cessione delle Chagos, infatti, significa che almeno in un momento della giornata tutti i territori del Regno Unito saranno al buio.

Non è la fine del colonialismo, ma ci si avvicina. Siamo nel 2024, era ora, si potrebbe dire. Come più cinicamente si potrebbe dire: siamo nel 2024, lo scontro tra potenze è all’orizzonte, non c’è spazio per piccole rivendicazioni territoriali.

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