Code di grandi auto sfrecciano su Sheikh Khalifa Bin Zayed Al Nahyan, l’autostrada che collega il porto di Abu Dhabi a Saadiyat Island, l’isola su cui si erge l’Abrahamic Family House, un complesso che ospita la chiesa di San Francesco, la moschea dell’Imam Al-Tayeb e la sinagoga di Moses Ben Maimon. La costruzione del campus – completata l’anno scorso – era stata annunciata dallo sceicco Mohamed bin Zayed a febbraio 2019, poco dopo la storica visita di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti, in quello che viene definito «l’Anno della tolleranza». Questo progetto architettonico su un’area una volta deserta è stato il segnale che qualcosa stava cambiando.

Il 15 febbraio 2020, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno normalizzato le relazioni diplomatiche con Israele, siglando alla Casa Bianca – presieduta da Donald Trump – gli Accordi di Abramo. Sono stati i primi paesi arabi a ufficializzare i legami con lo Stato ebraico dopo Egitto e Giordania, che avevano firmato trattati di pace con Israele rispettivamente nel 1979 e nel 1994. I leader emiratini suggerirono che l’accordo avrebbe consentito loro di spingere per una giusta risoluzione del conflitto israelo-palestinese, ma negli ultimi quattro anni le politiche di Tel Aviv a Gaza e in Cisgiordania non sono cambiate.

In questo arco temporale, gli Emirati Arabi Uniti sono diventati un partner stretto di Tel Aviv, ma la guerra a Gaza, l’invasione del Libano da parte di Israele e la minaccia di un conflitto regionale con l’Iran, pesano sugli accordi siglati dai due paesi.

«Gli emiratini, come il resto della popolazione araba, sono estremamente insoddisfatti della reazione di Israele contro la popolazione di Gaza. Il sentimento antisraeliano è al massimo storico, così come quello antiamericano in tutta la regione. Crediamo che la situazione sia andata ben oltre la legittima difesa. Ha già causato la morte di 42.000 palestinesi a Gaza, per lo più bambini e donne», dice Abdul Khaleq Abdullah, professore di Scienze politiche emerito negli Emirati Arabi Uniti.

Sia la leadership che le aziende emiratine sono state criticate per i legami economici e diplomatici con Israele dopo il 7 ottobre. I prodotti e i servizi legati allo Stato ebraico sono stati spesso boicottati.

Raphael Nagel – presidente dell’Abrahamic business circle negli Emirati Arabi Uniti – ha raccontato alla giornalista Jennifer Gnana sulla testata Al Monitor, che le aziende israeliane stanno etichettando i loro prodotti utilizzando un ufficio alternativo in Europa per commerciare con Abu Dhabi senza attirare l’attenzione del pubblico, per cui prodotti israeliani appaiono come per magia tedeschi, olandesi o spagnoli.

La mole degli scambi

Gli scambi economici tra lo Stato ebraico e gli Emirati Arabi Uniti hanno subito un incremento rilevante dopo gli Accordi di Abramo: se nel 2020 il commercio bilaterale tra i due paesi valeva 190 milioni di dollari, nel 2023 registra 3 miliardi, mentre nel 2024 si attesta che potrebbe raggiungere 3,3 miliardi di dollari.

Nel dicembre 2021 la Mubadala Petroleum di Abu Dhabi ha acquisito una quota del 22 per cento nel giacimento di gas Tamar di Israele per 1 miliardo di dollari. Si tratta del più grande accordo commerciale tra gli Emirati Arabi Uniti e Tel Aviv. I due paesi hanno incominciato a lavorare insieme non solo per sviluppare le risorse naturali di Israele nel Mediterraneo orientale, ma anche per unire i loro interessi energetici con la Giordania.

Il 31 marzo 2022 lo Stato ebraico ha concordato con Abu Dhabi il Comprehensive Economic Partnership Agreement (Cepa), il primo accordo di libero scambio tra Tel Aviv e uno stato arabo, entrato in vigore l’anno scorso, con l’obiettivo di aumentare il commercio bilaterale annuale a oltre 10 miliardi di dollari entro il 2027.

Le partnership tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele hanno abbracciato anche il settore tecnologico e quello della sicurezza. I due paesi hanno condotto esercitazioni congiunte e coprodotto nuovi sistemi militari, come una nave senza pilota guidata dall’intelligenza artificiale. Israele ha poi venduto ad Abu Dhabi sistemi avanzati di difesa aerea, gli intercettori mobili Spyder, progettati per contrastare gli attacchi di droni.

Se incrociamo i dati del report annuale dell’Abraham Accords Peace Institute e quelli dell’Ufficio centrale di statistica di Israele, si può evincere che il commercio tra Abu Dhabi e Tel Aviv ha raggiunto 1,922 miliardi di dollari nei primi sette mesi di quest’anno.

«Gli Emirati Arabi Uniti hanno mantenuto le relazioni con Israele, e questo è un segno che gli Accordi di Abramo non cesseranno di esistere, qualunque cosa accada», sostiene Abdul Khaleq Abdullah. «Questi accordi fanno parte di una strategia atta a stabilizzare la regione, nella speranza che questo possa aiutare anche la causa palestinese».

La guerra in Palestina

Gli Emirati Arabi Uniti sostengono che mantenere intatte le relazioni con Tel Aviv abbia permesso loro di aiutare concretamente i palestinesi come l’Occidente non sia stato in grado di fare. Oltre 2mila gazawi feriti gravemente sono stati evacuati dalla Striscia in questi mesi. Tre settimane fa, 200 persone malate di cancro con le loro famiglie sono uscite da Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom e sono volate verso Abu Dhabi per raggiungere gli ospedali emiratini.

Il paese del Golfo ha inviato 34 milioni all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che opera nella Striscia, quando l’Occidente ha congelato i fondi dopo l’accusa di Tel Aviv di un coinvolgimento dell’organizzazione nei fatti del 7 ottobre. Cento milioni di dollari in aiuti umanitari sono stati invece promessi al Libano, dopo l’inizio dei bombardamenti dell’Idf e la successiva incursione di terra. Abu Dhabi ha anche fatto sapere che contribuirà alla ricostruzione postbellica di Gaza solo se Israele riconoscerà lo Stato palestinese.

Gli Emirati Arabi Uniti sono per lo Stato ebraico un filo di congiunzione verso il mondo arabo e soprattutto verso i paesi del Golfo. Un’interruzione dei rapporti commerciali e dei legami diplomatici tra i due paesi – come ha fatto a novembre il Bahrein – aumenterebbe la pressione internazionale su Tel Aviv, ma finora il governo emiratino ha escluso questa opzione.

Adesso Abu Dhabi deve affrontare anche la minaccia di una guerra totale tra Israele e Iran. Il 2 ottobre i ministri degli Esteri dei sei paesi del Golfo si sono incontrati a Doha, dove hanno dialogato anche con il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, volato nella capitale del Qatar per fare visita all’emiro Tamim bin Hamad al-Thani. «Pezeshkian ha inviato un messaggio agli stati del Golfo: se restate fuori dalla guerra, Teheran non prenderà di mira nessuno di voi», spiega Abdul Khaleq Abdullah.

«E questi paesi non permetteranno che i loro territori, cieli o spazi vengano usati per uno scontro tra l’Iran e lo Stato ebraico. Abbiamo già vissuto cinque conflitti devastanti in Medio Oriente negli ultimi 40 anni e nessuno è disposto a sopportare una sesta guerra nella regione».

© Riproduzione riservata