Israele è lungo appena 470 chilometri, circa un terzo dell’Italia. Non molto se i tuoi vicini ti prendono di mira con razzi e altri ordigni. Una delle conseguenze dell’eccidio del 7 ottobre è stata infatti la discesa in campo dei terroristi libanesi di Hezbollah, che hanno preso a lanciare centinaia di droni e missili contro il settentrione israeliano.

Gli abitanti delle comunità della Galilea sono così diventati profughi interni nel loro paese, distribuiti in una miriade di hotel individuati dal governo di Benjamin Netanyahu. Una di questi 80mila sfollati è Ariela Fajrajzen, italki (ebrea italiana) genovese, classe 1939 e figlia del commediografo Alessandro Fersen.

«Venni per la prima volta in Israele dopo la maturità perché ero affascinata dal modello di autoamministrazione dei kibbutz. Un esperimento di vita sociale ed economica più giusta, più egualitaria, più solidale e più civile della normale vita borghese italiana».

Tuttavia già la prima notte capì la differenza tra la vita nel kibbutz Bar’am e la vita in Italia. «All’improvviso un kibbutznik armato fino ai denti entrò nella mia stanza per avvertirmi di non muovermi e non preoccuparmi se avessi sentito degli spari. Erano arrivati dei ladri di pecore». Per nulla scoraggiata, studia l’ebraico e un anno dopo diventa una kibbutznik anche lei. Si occupa dell’educazione dei giovani di Bar’am, mentre Israele continua a sopravvivere a una guerra dopo l’altra.

Una vita in guerra

«La Guerra dello Yom Kippur fu la prima in cui combatté la mia famiglia. Tutti i nostri maschi furono richiamati e anche noi donne ci allenammo a sparare. Un kibbutz più a nord del nostro fu preso di mira dai siriani per molti anni anche dopo la fine delle ostilità, come se oltreconfine si divertissero al tiro al piccione. Mio marito fu richiamato anche nella Prima guerra del Libano, nel 1982, però stavolta in qualità di autista del portavoce dell’esercito: sembrò una fortuna, invece andrò con lui in ogni luogo avvenissero gli scontri».

Fu anche la prima guerra combattuta da due dei figli maschi di Ariela. «Con tre membri della famiglia arruolati, neanche le pillole ti fanno dormire».

Poi avvenne Desert Storm. «Saddam Hussein provò a distruggere un grande radar israeliano situato sul monte Meron, soprannominato “Gli occhi di Israele” e ben visibile dalle mie finestre. A ogni allarme i fotografi si radunavano sotto casa mia per avere la possibilità di riprendere il momento dell’impatto, che per fortuna non avvenne mai».

Nel 2006 è scoppiata invece la Seconda guerra del Libano, causata dall’uccisione e dal rapimento di alcuni soldati di Tsáhal (le Forze di difese israeliane) in un agguato teso da Hezbollah. «Per questa guerra arruolarono mio figlio minore. Stava con noi di giorno e di notte partiva per le operazioni. Per una trentina di giorni la nostra quotidianità è stata questa».

È cambiato il confine

Prima di tutto questo, quando nel 1958 Ariela arrivò in Alta Galilea, le mucche e le pecore di Bar’am andavano invece a brucare sul confine. Così come le capre libanesi “invadevano” i pascoli israeliani. I mandriani dei due paesi si incontravano e fraternizzavano, organizzando pranzi comuni.

«Diverse volte i nostri pastori sono stati invitati ai matrimoni dei colleghi libanesi del villaggio Yarun. I nostri andavano lì di nascosto e si facevano a piedi cinque chilometri perché era comunque illegale. In quel periodo la polizia di frontiera israeliana era capitanata da un ufficiale druso (un gruppo etnoreligioso arabo, ndr) rosso di capelli, che era il terrore dei contrabbandieri.

Eravamo convinti che sapesse benissimo che noi ebrei strani dei villaggi in posti lontani e deserti andassimo ogni tanto a festeggiare a Yarun, ma che ce lo lasciasse fare perché sapeva che erano viaggi innocui». Oggi Yarun è invece un deposito di armi di Hezbollah. «Chissà se qualcuno degli abitanti di quel villaggio ricorda ancora quei tempi lontani», si chiede Ariela.

È cambiato il confine, è cambiato Yarun ed è cambiata anche Ariela. È sempre stata una laica iscritta al partito socialdemocratico Meretz, ma col tempo ha visto purtroppo che ciò che la circonda si è allontanato dai moderati come lei.

«Per anni mi sono schierata con chi cercava di aiutare i palestinesi, andando persino a proteggere i contadini cisgiordani dalle sassate dei “ragazzi delle colline” (estremisti ebrei, ndr). Abbiamo raccolto più di un milione di shekel (la valuta israeliana, ndr) per mantenere i sistemi d’irrigazione a Gaza per i palestinesi dopo il ritiro dei coloni, anche se poi Hamas li distrusse ugualmente.

Il 7 ottobre però più di un terzo di quei degenerati che ci hanno invaso erano civili: donne, uomini e ragazzi che si divertivano un mondo a guardare i valorosi guerrieri di Hamas mentre introducevano la canna della pistola nella vagina di una donna e sparavano. Si divertivano a vedere i miliziani di Hamas giocare a pallone con le teste decapitate dei membri del kibbutz che per anni gli hanno dato lavoro. Loro stessi hanno documentato i loro atti e vorrei proiettare quei video in ogni piazza in cui si inneggia alla “Palestina libera dal fiume al mare”».

La «colpa di esistere»

L’operazione a Gaza ha portato la guerra anche nella sua comunità, a nord. Hezbollah, che fa anche parte del governo libanese, attacca ininterrottamente dal giorno dell’eccidio. Prima sporadicamente, adesso ogni giorno e con costanza. Il kibbutz Manara è stato distrutto, mentre il kibbutz Malkia e la cittadina di Kiryat Shmona sono stati danneggiati pesantemente dai droni, dai razzi, dal fuoco.

«Un’intera regione devastata senza una vera ragione, se non la nostra “colpa di esistere”. E quando finalmente reagiremo, non ci sarà un giornale, un portavoce, un dazebao che non ci accuserà di usare troppa violenza. Io, la mia famiglia, la nostra comunità, tutti, siamo però profughi da 8 mesi e non sappiamo se e quando torneremo. Né se le nostre case ci saranno ancora. Stiamo vivendo la nostra vita in un albergo sul lago di Tiberiade, cercando una normalità.

Nonostante sia una condizione non ideale, moltissimi di noi non torneranno se non avranno solide garanzie dallo stato e dall’esercito che non si possa ripetere un 7 ottobre anche da noi sul confine settentrionale».

Perché quello che vuole ogni israeliano è innanzitutto non dover vivere con la paura che il vicino ti tagli la gola.

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