Traducendo in un slogan il caos mediorientale si può dire: Israele sta perdendo a Gaza e vincendo in Libano. Per arrivare a questa conclusione bisogna disgiungere due vicende legate temporalmente ma assai diverse nella genesi, negli sviluppi e soprattutto nelle conseguenze militari e politiche.

Dunque. Israele sta perdendo a Gaza. Affermazione contro intuitiva perché sul terreno l'esercito ha potuto agire in modo pressoché indisturbato, facendo strage di miliziani di Hamas. Ma molto di più di popolazione civile, donne, vecchi e bambini. E così si è alienata l'empatia che si era diffusa dopo la carneficina nei kibbutz del 7 ottobre (siamo vicini all'anniversario tondo).

Persino gli amici più stretti dello stato ebraico, come gli Stati Uniti di Joe Biden, sono stati costretti a lanciare appelli perché le truppe si fermassero davanti all'enorme mole di massacri indiscriminati. Non la reazione si è condannata, ma il modo di condurla secondo criteri che hanno violato qualunque legge internazionale, qualunque diritto umano.

Si è così diffuso un sentimento anti israeliano, cioè contro la politica perseguita, a largo spettro troppo spesso bollato come antisemita. L'antisemitismo soprattutto in occidente esiste da tempo immemorabile, ma non si devono confondere i piani. Altrimenti si dovrebbe arrivare alla conclusione che le decisioni dei governi dello stato ebraico non si possono discutere a priori.

Inoltre l'obiettivo principale dichiarato dell'invasione della Striscia, la distruzione di Hamas, è lontano dall'essere raggiunto. E non è stato né catturato né ucciso l'architetto del 7 ottobre, Yahya Sinwar, il leader della formazione terroristica, né sono stati liberati gli ostaggi ancora prigionieri, spina nel fianco del premier Netanyahu. Il quale sembra non avere nemmeno una strategia per il dopo. Che fare, appunto, dopo? La Striscia di Gaza è un accumulo di macerie. Occuparla pare problematico. Andarsene lascerebbe aperta la questione sulla sua gestione futura e sui pericoli persistenti seppur almeno per un certo periodo di tempo meno incombenti.

Il fronte libanese

Israele sta vincendo in Libano. Riottoso nell'ingaggiarsi in modo cosi profondo e furibondo a Gaza, l'esercito da anni premeva invece per risolvere la minaccia assai più pericolosa sul fronte Nord. Benché fosse in atto dal 2006 una pace armata, o se volete solo una tregua, non era un mistero che Hezbollah, il Partito di Dio, si stesse riarmando e avesse gli arsenali traboccanti di missili forniti dall'Iran (circa 150 mila ordigni), non solo per via aerea ma anche via terra lungo il percorso Iraq-Siria-Libano che è poi l'asse della cosiddetta dorsale sciita che si estende dal Golfo fino al Mediterraneo.

Un incubo ricorrente perché Hezbollah è diretta emanazione degli ayatollah di Teheran, l'acerrimo e in potenza mortale avversario di Israele in procinto di procurarsi l'atomica. Gli sforzi più consistenti, soprattutto dell'intelligence (leggi Mossad), erano concentrati nella raccolta delle informazioni circa i movimenti e le intenzioni di questo nemico. Attraverso sia agenti sul campo che sono riusciti a ingaggiare “traditori” nelle file dei miliziani sciti, sia un lavoro certosino di spionaggio tecnologico che ha sfondato le reti di comunicazione del Partito di Dio. Le informazioni sono del resto la prima arma delle guerre contemporanee.

Il clamoroso attacco dei cercapersone e dei walkie-talkie sono la spettacolare conferma del grado di perfezione raggiunta e, contemporaneamente, della vulnerabilità del gruppo terrorista. Tutto era pronto per regolare i conti. Il tassello finale è stata la relativa debolezza dell'Iran che, a parte le condanne generiche, negli ultimi mesi si era ben guardato dall'entrare in un conflitto diretto contro Israele: è conscio della sua inferiorità bellica.

Da qui la luce verde all'attacco per decapitare i vertici, a partire dall'ex inafferrabile Hassan Nasrallah, il capo supremo, primula rossa del terrorismo internazionale. Non gli è bastato rifugiarsi in un bunker a grande profondità sotto il terreno, l'onda d'urto della potente esplosione lo ha ucciso comunque.

La partita di Netanyahu

Siccome il quartier generale di Hezbollah a Beirut sud sorge(va) confuso tra le abitazioni civili, purtroppo non si sono potute evitare vittime collaterali, ma in misura assai minore rispetto a Gaza: l'intelligence sapeva esattamente dove colpire i suoi bersagli. Se i suoi miliziani piangono Nasrallah, così come l'Iran, la sua scomparsa non ha gettato nel lutto, anzi, diversi degli attori politici in Medioriente come nel resto del mondo.

Hezbollah con la sua forza militare, superiore a quella dello stesso esercito regolare libanese, condizionava pesantemente la vita del paese, ostaggio delle sue volontà. Difficile che si rammarichino della sua scomparsa i partiti dei cristiano maroniti e dei drusi che vedono finalmente liberarsi dal ricatto delle armi l'agibilità politica. E pure il mondo sunnita dei paesi circostanti, se non è proprio sceso in piazza per manifestazioni di giubilo (ma qualcuno a titolo personale l'ha fatto), si è comunque rallegrato. Non va mai dimenticato che gli attriti tra sunniti e sciiti datano ormai almeno dagli anni Dieci per la supremazia nell'islam.

Benjamin Netanyahu non ha ancora terminato il lavoro. Prova ne siano i bombardamenti di ieri nella valle della Beqa, sempre in Libano, terra nevralgica per il passaggio delle armi, a testimonianza della volontà di una resa dei conti totale. Ma anche gli attacchi nello Yemen per colpire gli Houthi, altra spina nel fianco di Israele e alleati, come Hezbollah, di Teheran. I nuovi sviluppi sono accompagnati da una crescita della popolarità del premier, stando ai sondaggi. E potrebbe persino succedere che le elezioni, tanto richieste in questi mesi all'opposizione per cacciarlo, sia ora proprio lui a volerle. Per rafforzare un potere vacillante e comunque troppo in balia dei capricci dei partiti razzisti che fanno parte della sua maggioranza.

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