La morte di Hassan Nasrallah è un colpo durissimo per l’asse di resistenza iraniano, che rilancia l’immagine dello Stato ebraico, sia da un punto di vista militare che politico. Resta, però, la domanda: che ne sarà del dopo guerra?
È un po’ la storia della volpe che scava il buco per far cadere la preda, per poi finirci intrappolata lei stessa. Il 7 ottobre doveva essere la trappola perfetta per Israele, costretto ad assecondare la strategia di Hamas di utilizzare il martirio del proprio popolo fino a suscitare lo sdegno della comunità internazionale e l’inevitabile intervento delle milizie amiche, magari costringendo alla mobilitazione persino i governi nazionalisti arabi, incapaci di reggere la pressione delle masse.
Fino all’ipotesi iperbolica di costringere i Paesi firmatari a rescindere gli Accordi di Abramo.
L’assassinio di Hassan Nasrallah, in Medio Oriente un’istituzione vivente con i suoi trent’anni alla guida del cosiddetto «Partito di Dio», rivela ancora una volta la totale incapacità strategica di questa parte del mondo islamico che si è opposta strenuamente alla presenza di Israele nell’area mediorientale dal 1948 in avanti. Una componente che ha perso tutte, dicasi tutte, le guerre che essa stessa ha iniziato.
La trappola, a vedere dall’oggi, si è rivelata tale per i gruppi jihadisti chiamati all’appello da Sinwar, Deif e soci, messi all’angolo i loro cosiddetti alleati perché impossibilitati a non dare un segno di empatia nei confronti dei «fratelli» palestinesi, solitamente discriminati in ogni modo nelle loro patrie.
Il prezzo da pagare per un’astensione sarebbe stato troppo alto in termini di consenso interno, fino a mettere in discussione quei feudi territoriali su cui gli stessi leader hanno costruito la propria fortuna politica e, diciamolo chiaro, anche economica. Hanno provato a svincolarsi dalla morsa creata dalla leadership di Hamas, puntando su una guerra d’attrito, trascurando, però, che il governo israeliano ad un certo punto avrebbe dovuto dare risposta alle proteste interne degli sfollati del Nord, che da mesi chiedevano di risolvere la propria situazione. Alcuni invocando apertis verbis un intervento armato di grandi proporzioni.
L’opposizione festeggia
E la reazione israeliana alla fine è arrivata, tra l’altro rilanciando in grande stile l’immagine assai offuscata dello Stato ebraico. Sia dal punto di vista militare, con interventi mirati che ricordano le più brillanti imprese passate del Mossad, sia, anche se qui si oscilla a seconda dell’emotività quotidiana, da un punto di vista politico.
Non sono in pochi in queste ore a festeggiare la morte del leader di Hezbollah in Medio Oriente. Dalle ragazze e ragazzi iraniane/i che considerano sia Hamas che Hezbollah un’emanazione del regime degli ayatollah che li tiene sotto scacco, fino ai milioni di siriani che hanno sperimentato sulla propria pelle la ferocia criminale delle milizie sciite libanesi schierate al fianco di Assad nella guerra civile che ha sconvolto il Paese. Senza scordare, perché no, i molti libanesi che hanno dovuto subire l’egemonia di Hezbollah in casa propria.
Perché sarà vero che queste milizie finanziano ospedali e welfare in stile Pablo Escobar, ma il prezzo da pagare è accettare una logica mafiosa di governo che ti può pure imporre di vivere sopra una postazione lanciarazzi.
Ora la trappola creata da Sinwar si estende anche all’Iran, che annuncia l’invio di truppe in Libano mentre nasconde in qualche buca sotterranea ubicata vicino al centro della terra il leader supremo Khamenei.
Difficile capire dove potrà essere al sicuro perché appare chiarissimo che l’intelligence israeliana abbia penetrato il Paese in ogni modo, sicuramente lavorando in sinergia con l’amplissima opposizione che ha come obiettivo il regime change perlomeno dal 2009, anno delle grandi proteste represse da Ahmadinejad.
Il dilemma del dopo
Il rischio per Teheran è una nuova, cocente umiliazione perché esporrebbe le proprie truppe a massicci bombardamenti dall’alto. Tutto bene per Israele? Insomma.
Oggi c’è euforia, ma resta il tema del dopo, che ha già condotto in stallo lo scenario a Gaza. Si vince la guerra, ma che ne è della pace?
Ed è qui che iniziano le divergenze fra le diverse anime di Israele: verissimo, come ha scritto Gigi Riva, che c’è sintonia fra governo ed esercito sull’attacco a Hezbollah, ma assoluta distanza sul dopo.
Il primo, condizionato dai suoi membri razzisti e messianici, vuole che il 7 ottobre sia l’occasione per estendere i confini dello Stato, il secondo non ha alcuna intenzione di drenare vita natural durante truppe e risorse in territori che sarebbe eufemistico definire ostile, preferendo una soluzione concordata con vecchi e nuovi alleati.
Fu una delle ragioni del ritiro di Sharon da Gaza, che solo un ictus ha impedito si estendesse anche a molti insediamenti in Cisgiordania. La domanda è sempre la solita: con quale Israele abbiamo a che fare?
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