«La mia famiglia è intrappolata, non riesce a lasciare casa. Hanno paura di essere colpiti dai soldati israeliani durante la fuga». A parlare è Majed, un ragazzo palestinese che dal 2019 vive in Italia ma che per una coincidenza fatale si trova bloccato a Gaza da oltre un anno (vi avevamo già raccontato la sua storia). Era tornato nella Striscia per ritrovare il padre malato e da lì non è più riuscito a uscire.

Nonostante avesse il permesso per attraversare il valico di Rafah il 15 ottobre del 2023, l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha cambiato le carte in tavola. In questi giorni si trova nel sud della Striscia, mentre parte della sua famiglia è bloccata a nord all’interno del campo profughi di Jabalia, il più grande degli otto presenti nella Striscia di Gaza. Il campo copre un’area piccola (1,4 chilometri quadrati) per i 119.540 rifugiati registrati presso l’Unrwa, l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi.

Migliaia di persone hanno già lasciato il campo nei mesi scorsi, altre sono ritornate e ora si trovano nuovamente in pericolo dopo che domenica 6 ottobre è iniziato il quarto attacco israeliano. Secondo quanto riporta il Times of Israel, l’Idf ha iniziato un’operazione militare via terra inviando le truppe della 401ª e 460ª brigata corazzata e della 162ª divisione che hanno circondato il campo di Jabalia. L’intervento – secondo l’esercito – è nato dopo l’arrivo di «informazioni di intelligence su agenti e infrastrutture di Hamas» che evidenzierebbero «gli sforzi del gruppo terroristico di riorganizzarsi lì».

Ma attaccare l’area significa anche mettere a rischio la vita di migliaia di civili e operatori umanitari, come denunciato nelle ultime ore anche da Medici senza frontiere.

Evacuazione complicata

Tel Aviv ha imposto vie di evacuazione attraverso la lunga strada di Salah al din, che attraversa oltre metà della Striscia. L’obiettivo è far arrivare i civili nella zona umanitaria tra Al Mawasi e Deir el Balah, dove peraltro si trovano già oltre un milione di persone sfollate nei giorni scorsi.

«Almeno 400mila persone sono intrappolate nella zona nord di Gaza», ha scritto su X Philippe Lazzarini, capo dell’Unrwa. «I recenti ordini di evacuazione da parte delle autorità israeliane stanno costringendo le persone a fuggire ancora e ancora, soprattutto dal campo di Jabalia. Molti si rifiutano perché sanno fin troppo bene che nessun posto a Gaza è sicuro», ha detto.

«Con la quasi totale assenza di beni di prima necessità, la fame si sta diffondendo e aggravando nuovamente. Questa recente operazione militare minaccia anche l’attuazione della seconda fase della campagna di vaccinazione antipolio per i bambini. I bambini sono, come sempre, i primi e i più colpiti».

Da giorni, inoltre, circolano online video di civili in fuga sotto gli spari dei cecchini. «I miei genitori, le mie tre sorelle e mio fratello sono bloccati a casa. Hanno paura a scappare, dicono che stanno sparando anche contro i civili», racconta Majed. «Provo a chiamarli ogni ora, ma non sempre ci riesco. La connessione è molto instabile».

Anche rimanere nelle proprie abitazioni è una scelta rischiosa. «Si trovano rinchiusi da cinque giorni, sopravvivono grazie alle scorte ma stanno finendo. Non hanno più l’acqua», dice Majed. Nel nord non c’è più nulla. I camion degli aiuti umanitari non entrano dal 1° ottobre, i negozi di alimentari sono distrutti così come i forni che producono il pane. «Msf esorta le forze israeliane a consentire l'ingresso nel nord del paese delle forniture umanitarie di cui c’è disperato bisogno, come questione di estrema urgenza», si legge in un comunicato dell’organizzazione umanitaria.

Quella in corso è la quarta offensiva militare dell’esercito israeliano a Jabalia. L’ultima è avvenuta lo scorso maggio ed è stata descritta dall’Idf stessa come la «più violenta» della guerra. Nel dicembre del 2023 un bombardamento ha ucciso almeno 90 persone e ferite altre 100.

Nell’ultimo anno la casa della famiglia di Majed è già stata bombardata due volte, la prima proprio nell’attacco di dicembre e la seconda volta a maggio. L’abitazione ha subito ingenti danni: il tetto è andato distrutto, diverse stanze sono diventate un cumulo di macerie. Ciò nonostante la sua famiglia ha deciso di ritornarci anche «perché non c’è più un luogo sicuro a Gaza».

Il piano di Israele

L’offensiva dell’Idf di questi ultimi giorni coinvolge l’intera area del campo profughi di Jabalia, ma anche quella Beit Hanoun e Beit Lahia. Il nord della Striscia è da oltre un anno nel mirino dell’esercito israeliano, che considera la zona una delle roccaforti di Hamas. Secondo alcuni osservatori le forze armate stanno cercando di “bonificare” quella parte di Gaza imponendo un assedio totale e aprendo la strada a un’eventuale espansione degli insediamenti.

«Queste evacuazioni di massa forzate e gli attacchi a interi quartieri da parte delle forze israeliane stanno trasformando il nord di Gaza in un'area desolata e invivibile, svuotando di fatto l’intero nord della Striscia», denunciano da Medici senza frontiere. 

Mauricio Lapchik, della ong israeliana Peace Now, aveva raccontato a Domani che ci sono orde di coloni estremisti in attesa lungo il confine che non aspettano altro di entrare nella Striscia. Al momento, però, non ci sono piani ufficiali pubblici di questo tipo.

L’Idf non ha specificato quanto durerà l’intera operazione iniziata il 6 ottobre scorso. La 162esima divisione operativa in questi giorni nel nord è stata in precedenza per ben cinque mesi tra Rafah e il Corridoio di Filadelfia. Il rischio è che anche questa volta ci rimarrà per tanto tempo.

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