Mentre Israele continua l’offensiva in Libano, il nord della Striscia di Gaza è sotto assedio e la crisi umanitaria è drammatica. Da oltre dieci giorni l’Idf ha iniziato un’operazione militare via terra inviando le truppe della 401ª, 460ª brigata corazzata e della 162ª divisione che hanno circondato il campo di Jabalia, dove secondo Tel Aviv ci sono ancora miliziani di Hamas.

Ma il bilancio dell’operazione è tragico: oltre 300 morti in dieci giorni (tra cui un operatore umanitario di Medici senza frontiere) e il numero delle vittime aumenta di giorno in giorno, non solo per via dello scontro a fuoco e delle bombe.

Nel nord della Striscia, a Jabalia, Beit Hanoun e Beit Lahia non arrivano più gli aiuti umanitari. L’esercito israeliano ha bloccato la distribuzione di cibo, medicine e carburante e aiuti dallo scorso 1° ottobre mentre ci sono ancora circa 400mila civili nell’area secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), che rischiano di morire di sete e di fame. «Con la quasi totale assenza di beni di prima necessità, la fame si sta diffondendo e aggravando nuovamente. Quest’operazione militare minaccia anche l’attuazione della campagna di vaccinazione antipolio», ha detto Philippe Lazzarini capo dell’Unrwa.

«Acqua e farina»

«La mia famiglia è stata intrappolata per quasi dieci giorni. Avevano paura di essere uccisi dai soldati israeliani durante la fuga», racconta Majed, un ragazzo palestinese che dal 2019 vive in Italia ma che per una coincidenza fatale si trova bloccato a Gaza da oltre un anno (vi avevamo già raccontato la sua storia).

Era tornato nella Striscia per trovare il padre malato e da lì non è più riuscito a uscire nonostante avesse il permesso per attraversare il valico di Rafah il 15 ottobre del 2023, ma l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha cambiato le carte in tavola. In questi giorni si trova nel sud della Striscia, mentre parte della sua famiglia era bloccata a nord all’interno della loro casa nel campo profughi di Jabalia, il più grande degli otto presenti nella Striscia di Gaza e che conta circa 119mila rifugiati. Migliaia di persone hanno lasciato il campo nei mesi scorsi, altre ci hanno fatto ritorno. Ora si trovano in pericolo dopo che il 6 ottobre è iniziata l’offensiva d’Israele.

Tel Aviv ha imposto evacuazioni attraverso la strada di Salah al din, che attraversa oltre metà della Striscia. L’obiettivo è far arrivare i civili nella zona umanitaria tra Al Mawasi e Deir el Balah, dove peraltro si trovano già oltre un milione di persone sfollate. Un ordine di evacuazione che è problematico non soltanto per motivi di sicurezza, ma anche perché svuoterebbe l’intero nord della Striscia.

I genitori di Majed sono tornati quest’estate in quello che è rimasto della loro casa, già bombardata a dicembre e a maggio. La loro abitazione ha subito ingenti danni: il tetto è andato distrutto e le stanze sono un cumulo di macerie. Ciò nonostante la sua famiglia aveva deciso di ritornarci anche «perché non c’è più un luogo sicuro a Gaza», dicono.

Ora sono riusciti a scappare verso nord a Beit Lahia, dove hanno raggiunto casa di un parente. «I miei genitori, le mie tre sorelle e mio fratello sono rimasti bloccati per giorni e avevano finito le scorte di cibo e acqua. Non riuscivano a scappare, i soldati israeliani hanno sparato anche contro i civili», dice Majed.

Il campo profughi di Jabalia è distrutto, negozi e forni sono stati demoliti. Il 14 ottobre un gruppo di persone si è recato in un centro alimentare dell’Onu per cercare vecchie scorte di cibo. Sono stati colpiti dai carri armati israeliani: 10 morti e 30 feriti, tra cui donne e bambini.

Il piano dei generali

Quella in corso è la quarta offensiva militare dell’esercito israeliano a Jabalia. L’ultima è avvenuta lo scorso maggio ed è stata descritta dall’Idf stessa come la «più violenta» della guerra. Nel dicembre del 2023 un bombardamento ha ucciso almeno 90 persone e ferite altre 100. Ufficialmente l’operazione di questi giorni – secondo l’esercito – è nata per evitare la riorganizzazione di Hamas. In realtà secondo alcuni osservatori le forze armate stanno cercando di “bonificare” il nord di Gaza imponendo un assedio totale per aprire la strada a nuovi insediamenti.

«Queste evacuazioni di massa forzate e gli attacchi a interi quartieri da parte delle forze israeliane stanno trasformando il nord di Gaza in un’area desolata e invivibile, svuotando di fatto l’intero nord della Striscia», denuncia da Medici senza frontiere.

Mauricio Lapchik, della ong israeliana Peace Now, aveva raccontato a Domani che ci sono coloni il confine che non aspettano altro di entrare a Gaza. Per ora non ci sono annunci pubblici del governo israeliano. Ma secondo l’Associated press il premier Netanyahu e la Knesset starebbero studiando il cosiddetto “piano dei generali” presentato da alcuni ex alti ufficiali militari in pensione capeggiati da Giora Eiland.Il piano prevede un assedio totale del nord, non far entrare aiuti umanitario per spingere i civili ad abbandonare le case e i miliziani di Hamas ad arrendersi. Poi il nord sarà disegnato zona militare chiusa e passerà sotto il controllo israeliano.

«Nel nord di Gaza conoscono il piano. Non vogliono lasciare le loro case perché sanno che non ci ritorneranno», dice Majed. Il governo smentisce, ma dopo i crimini commessi nell’ultimo anno per i gazawi non è più credibile.

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