Le letture sui pro e i contro della permanenza di Joe Biden a capo del ticket riempiono le pagine dei giornali americani e dominano le conversazioni intorno al vertice Nato iniziato ieri sera a Washington, circostanza che viene letta come una prova delle capacità di leadership che Biden dice di avere ancora, i suoi alleati molto meno. Si parla molto della conferenza stampa che terrà domani, nella quale inevitabilmente si esporrà alle domande sulla sua tenuta elettorale.

Si parla meno invece di chi ha reso possibile che le reali condizioni dell’inquilino della Casa Bianca, almeno fuori dai circoli degli addetti ai lavori, venissero tenute sotto traccia o sottovalutate così a lungo. Però a ben vedere si può individuare chi sia il consigliere più influente e più ascoltato del presidente, ovvero Mike Donilon, attualmente capo stratega della campagna elettorale, ruolo che ha già ricoperto nel 2020.

Classe 1958, è il consulente più longevo di Biden: è con lui sin dal lontano 1981, seguendo passo passo la sua carriera anche negli anni della vicepresidenza.

Ha svolto per diversi anni anche il delicato ruolo di preparazione dei dibattiti: nel 2012, quando era numero due del ticket dem, Biden vinse un dibattito con Paul Ryan, in un momento particolarmente delicato per la campagna di Barack Obama, in difficoltà nei sondaggi.

Soprattutto, Donilon è stato quello che ha forgiato il messaggio vincente della campagna elettorale del 2020. Un concetto diviso in tre parti, con al centro la “nazione”: l’anima della nazione, messa in pericolo da un eventuale secondo mandato di Trump, il pilastro della nazione, rappresentato dalla classe media, e infine la nazione fratturata che la presidenza di uno statista venerato come Biden avrebbe unito nuovamente sotto la sua guida. Insomma, una strategia tutta incentrata sul carattere e le qualità umane del personaggio contrapposto al divisivo ed eversivo Donald Trump.

All’epoca aveva funzionato, perché non dovrebbe funzionare adesso? Per una serie di ragioni, a cominciare proprio dall’età.

Accuse di slealtà

Per il suo lungo rapporto di collaborazione, Donilon è stato definito la “coscienza” del presidente, e gode della sua completa fiducia. Che, per un leader noto per la sua riluttanza a licenziare i collaboratori, vale oro. Secondo alcuni retroscena, infatti, sarebbe lui dietro la recente debacle ma soprattutto dietro il bozzolo protettivo costruito intorno a Biden, che lo ha gradualmente nascosto all’opinione pubblica, rifiutando persino la tradizionale intervista nella mezz’ora prima del Superbowl. Come si tiene questo sistema?

Semplice, con la paura di essere allontanati dal presidente: una ricostruzione pubblicata da Axios restituisce proprio questo clima, dove nessuno solleva dubbi sulla strategia generale per timore di essere visto come «sleale» e di «aiutare Trump». Di diverso avviso è un’altra consigliera del presidente, Anita Dunn, che serve alla Casa Bianca come consulente senior. Insieme a Donilon e a Dunn c’è anche il marito di quest’ultima, Bob Bauer, che ha preparato il presidente prima del dibattito.

Adesso loro stanno cercando di raddrizzare le cose, andando contro il cerchio magico del presidente che include anche i familiari e il suo amico di vecchia data Ted Kaufman, che secondo Biden è «l’uomo più saggio che ci sia». Tutti questi però stanno minimizzando.

Infine c’è anche Ron Klain, che per due anni è stato capo di gabinetto del presidente e che più di ogni altro ha potuto toccare con mano il declino cognitivo del presidente e adesso tace, cercando di trovare un modo per cavare fuori i dem da questa impasse.

Aborto

Per Donilon i sondaggi, dunque, sono tutti sbagliati e bisogna pensare che per le persone la prima preoccupazione rimane la tenuta democratica del Paese, che viene assicurata da un «grande presidente come Joe Biden». Un’altra idea promossa da Donilon per salvare Biden è quella di martellare l’elettorato sulla difesa del diritto di abortire minacciata dai repubblicani.

Questi ultimi però, mentre si sta per arrivare alla convention di Milwaukee, stanno molto annacquando la piattaforma programmatica del partito su questo punto, proprio perché Trump ha sempre respinto le posizioni antiabortiste più estreme perché impopolari presso una larga fascia di elettorato moderato.

Non è però la sola idea sbagliata del team Biden. Le vittorie del 2020 e del 2022 sono state caratterizzate da un grande equivoco: l’elettorato ha rigettato il messaggio più radicale del trumpismo, mentre invece i dem credono che sia stato un voto di fiducia nei confronti di Biden.

Non solo: secondo l’editorialista del New York Times Maureen Dowd, Biden doveva gestire il capitale politico conservato a fine 2022 per non ricandidarsi e lasciare con grazia a un successore più giovane. Spinto dai suoi, invece, Biden ha creduto di spingersi verso una rielezione sempre più lontana verso la quale procede con grande testardaggine, senza valutare che la realtà stavolta è cambiata. E l’opinione pubblica pensa che stavolta il rischio maggiore sia un presidente senile anziché uno autoritario.

Trump in questi giorni, infatti, si è rinchiuso in un inconsueto silenzio, rotto solo dal suo ripudio del Project 2025, un piano di trasformazione delle istituzioni in senso autoritario varato dalla Heritage Foundation, per ricostruire una sua immagine più moderata, a costo di scontentare qualche nazionalista cristiano che voterà comunque per lui a novembre. Mentre la squadra di Biden si culla nell’illusione che anche stavolta sarà come nel 2020.

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