The end. O forse no. Il ritiro di Joe Biden dalla corsa alla Casa Bianca è stato letto come un momento drammatico nella parabola della democrazia americana. Difficile immaginare un presidente in carica costretto ad arrendersi dinanzi alla realtà rovinosa della sua stessa immagine pubblica.

L’ultimo confronto televisivo con Donald Trump aveva certificato l’inadeguatezza del comandante in capo a pilotare i democratici verso una riconferma complicata. Da lì, giornate dove le notizie si sono rincorse mentre anche ai vertici del partito del presidente cresceva un pressing rivelatosi alla fine determinante.

Ora, l’uomo che a lungo ha cercato di resistere promuove la candidatura della sua vice, Kamala Harris, e lo fa nel mezzo di polemiche destinate a risolversi nell’arco di qualche giorno o settimana nonostante alcuni protagonisti della vicenda non ritengano l’avvocatessa figlia di madre indiana la soluzione migliore. Di contro, lo sbruffone e golpista Trump dichiara ai quattro venti la certezza di passeggiare a novembre sui resti del Partito democratico.

Teatro e democrazia

Un nodo, però, rimane, ed è capire quali criteri oramai prevalgano nella dinamica elettorale della più potente democrazia dell’Occidente. Qualche anno fa Arthur Miller, il maggiore drammaturgo americano del Novecento, ricevuta la medaglia annuale del National Endowment for the Arts, teneva dinanzi a una platea non foltissima il suo discorso di ringraziamento. A noi è arrivato con un titolo suggestivo e pertinente alla cronaca degli ultimi giorni: I presidenti americani e l’arte di recitare (pubblicato in Italia da Bruno Mondadori).

La premessa di Miller – era pur sempre uomo di teatro – si rivolgeva ai politici in quanto attori e lo faceva con una tesi secca: dinanzi a un leader ciascuno di noi reagisce osservando e giudicando il suo modo di presentarsi più che i suoi programmi o le sue doti morali. Subito dopo aggiungeva come il mistero del leader, in quanto uomo di spettacolo, fosse vecchio quanto il mondo, ma nell’epoca dominata dalla televisione avesse prodotto un cambiamento quantitativo nel senso che individui normali sono assediati «dalla recitazione come mai prima nella storia».

Non so dire se lo staff di Biden avesse conoscenza di questi moniti, tendo a pensare che anche conoscendoli li abbiano colpevolmente ignorati. Torniamo, però, al ragionare di Miller. A suo dire i leader politici di ogni latitudine avevano compreso che per governare dovevano imparare a recitare proprio come qualsiasi attore. Nello specifico, «Che sia mosso dal calcolo o dall’istinto, il leader politico deve trovare il centro magnetico che unirà un pubblico frammentato, e deve quindi evitare di mandare segnali che possano alienargli porzioni significative del suo pubblico. È inevitabile che questo tipo di gestione di una platea esiga la recitazione».

Diciamo che, nella sua ultima e drammatica performance televisiva, il presidente in carica è stato mandato in scena senza lo straccio di un copione, ma, trattandosi del protagonista della pièce e non d’una comparsa, l’effetto è stato un assist volontario al suo avversario.

A conferma del tutto, sempre Miller in quello speech di ringraziamento raccontava come Roosevelt nella corsa alla presidenza avesse temuto un solo rivale, un tale Huei Long, della Louisiana. Lo definiva un demagogo, «un imbroglione che inveiva contro i colossi economici e tuonava contro i ricchi nel momento stesso in cui spillava loro donazioni enormi, e costruiva un sistema universitario e ospedaliero utilizzando allo stesso tempo la polizia di Stato per terrorizzare gli avversari, di alcuni dei quali aveva probabilmente ordinato l’assassinio. Se non fosse stato ucciso forse avrebbe anche raggiunto, come alcuni temevano, i livelli di potere più alti del paese. La sua ascesa fu senza dubbio la vittoria più impressionante del mero talento recitativo che questo paese abbia mai conosciuto».

Il grande attore

Quel grande drammaturgo non poteva sapere che sulla scena avrebbe fatto irruzione qualcuno di peggiore assai. Su un punto, infine, avevo trovato il discorso di Miller particolarmente intrigante. Lì dove aveva suggerito una spiegazione del concetto di carisma, principio prezioso nella costruzione di una leadership.

Lo descriveva così: «Come gran parte della gente, la prima volta che vidi recitare Marlon Brando non lo avevo mai sentito nominare». La scoperta avvenne in un teatrino di off Broadway dove si rappresentava un testo poco conosciuto e dal valore modesto. Sul piccolo palcoscenico era riprodotto uno squallido bar in aperta campagna, il locale era vuoto, male illuminato e occupato soltanto da un bancone e una tappezzeria logora.

Sul palco

A quel punto sulla scena entrava un uomo, giovane, con una giacca di pelle consumata e un berretto, seguito da una ragazza dall’aria esausta. Il racconto proseguiva così: lui (Brando) «gironzola al centro del palcoscenico, cercando un segno di vita. Per un bel po’ non apre bocca, si limita a stare lì in piedi, con quella postura dinoccolata che si assume dopo aver guidato per ore. Non succede niente, e lui cerca di decidere il da farsi, esaurendo piano ma in maniera evidente la pazienza».

Ed eccoci al dunque, «lui quasi non si è mosso, ma il pubblico che lo guarda, me compreso, è già ammaliato. Un altro attore avrebbe solo fatto crescere l’impazienza, mentre Brando ci ha in pugno; gli leggiamo dentro; anche se non sapremo definire con precisione che cosa dice, la sua interiorità ci parla».

Ma è il commento finale che merita di esser letto e compreso: «Non so spiegare come Brando, senza proferire verbo, facesse quel che faceva, ma aveva trovato un modo, senza dubbio grazie al suo istinto, per gestire un paradosso: ci aveva implicitamente minacciati e poi perdonati. Lì dentro c’era Napoleone, c’era Cesare, c’era Roosevelt. Brando non aveva chiesto agli spettatori di amarlo e basta; quello è solo fascino. Li aveva indotti a sperare che lui si degnasse di amare loro. Una star (o un leader, si potrebbe aggiungere) è questo. In scena o meno, il potere è questo, e nella sua essenza non è molto diverso dal potere che può guidare le nazioni».

La speranza

Quella lontana conferenza di Arthur Miller mi è tornata alla mente in queste ore concitate. Non so come la questione evolverà, anche se coltivo la speranza che la seconda domenica di gennaio del 2025 non veda un miliardario eticamente corrotto giurare sulla Bibbia come 47º presidente degli Stati Uniti.

Come tanti, posso solo sperare che di qui alle prossime settimane i democratici d’oltreoceano siano tanto previdenti da attrezzare una candidatura preparata in ogni senso – programma, linguaggio, empatia – ma capace anche di non scordarsi quel concetto di carisma. Se, come pare, toccherà a Kamala Harris, saremo in tante e tanti ad augurarle di prevalere nelle urne. Per il bene dell’America, e per il futuro della democrazia.

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