Nella West Bank la presenza internazionale si sta facendo sempre più rarefatta, e gli insediamenti crescono. Violando la legge israeliana, i coloni costruiscono infrastrutture e aggrediscono chiunque cerchi di fermarli
Per arrivare da Betlemme a Yatta ci vuole poco più di un’ora e mezza. Si esce dalla città attraverso le sue impervie stradine tutte saliscendi. Girandosi a guardare l’ingresso, si vede un gigantesco cartello rosso: è un avviso ai cittadini dello stato di Israele che si sta per entrare in area A, zona sotto il controllo palestinese secondo gli accordi di Oslo; dice di fare attenzione. Sami Hureini guida con aria seria e gentile, la sicurezza di chi conosce la strada. Da Al Khalil, circa a metà strada, fino a Yatta, c’è una superstrada. Un cantiere segue la superstrada, corre parallelo.
È Alex, un volontario internazionale di Operazione Colomba, a spiegarmi di cosa si tratta: «Stanno costruendo una nuova strada, unirà le colonie e sarà transitabile solo dagli israeliani, in questo modo sarà più facile aumentare il controllo su questa, perché ci passeranno soltanto i palestinesi, isolandoli ulteriormente». La prima immagine è questa: due strade che corrono l’una accanto all’altra, parallele, nessun punto di contatto. Alex indica fuori dal finestrino: «I villaggi palestinesi si distinguono dalle colonie anche da lontano dalle cisterne di acqua sul tetto». Le colonie, gli avamposti o le città israeliane, anche le più povere o sperdute, possono fare affidamento su un sistema idrico più avanzato. Anche l’acqua, qui, scorre su strade parallele.
Alberi distrutti
Superando Yatta si entra in area C, sotto completo controllo israeliano, nella regione di Masafer Yatta, passando per una bypass road, una delle strade costruite per connettere tra loro le colonie, su cui i palestinesi non possono circolare. In questa zona «esistono e resistono», come dicono qui, una ventina di villaggi. La comunità che li abita e li attraversa, oltre ai palestinesi che ci vivono da generazioni, è fatta di una fitta rete di volontari e attivisti internazionali. Per loro passare da qui significa supportare i palestinesi nella resistenza che portano avanti da decenni. Una resistenza fatta di lotta, amore, rabbia, cura, apparenti contraddizioni. Una resistenza che parte dalla terra. Hafez Hureini, leader del movimento di resistenza nonviolenta locale, sta accucciato nel suo campo, nel villaggio di At Tuwani. Spiega a una volontaria come dare da bere alle piantine di vite messe a dimora poche settimane fa. Si gira – la sigaretta che sporge dall’angolo della bocca – verso il boschetto che si trova pochi metri più in alto sulla sommità della collina: «Tra quegli alberi abitano dei coloni».
Le case che indica sono l’avamposto di Havat Ma’on, illegale secondo sia il diritto internazionale che quello israeliano. La prassi per i coloni sovrasta spesso la parola della legge. Hafez torna a guardare il campo: «Qui c’erano 200 alberi, dopo il 7 ottobre i coloni sono venuti e hanno distrutto tutto, siamo riusciti a tornare nel campo solo qualche settimana fa. Abbiamo subito piantato 200 piante». Duecento: a ogni cosa distrutta ne corrisponde una nuova, in questo il senso della lotta. Nessuna illusione sul fatto che le piante che sta annaffiando possano crescere, quasi matematica la certezza che verranno distrutte ancora e ancora: «Le pianteremo di nuovo». In occidente si chiamerebbe resilienza, i palestinesi della Masafer Yatta lo chiamano Sumud.
In questo contesto la presenza internazionale ha un ruolo essenziale. I volontari, spiega Alex, «mettono a disposizione il privilegio del passaporto occidentale e la possibilità di testimoniare quanto accade per supportare la resistenza, essere uno strumento per la loro lotta». Questo significa «aiutare nei campi, passare il tempo con le famiglie, semplicemente esserci, al fianco di chi resiste».
Dal 7 ottobre la situazione è diventata ancora più insostenibile, anche a causa della recente estensione ai coloni di alcuni dei diritti e delle mansioni prima riservati all’esercito. Esistere in queste terre è sempre più difficile. Come ripete chiunque si incontri in quei villaggi, la situazione è «la peggiore di sempre, peggio del ‘48». «Dal 7 ottobre fino a gennaio», racconta Kifah mentre allatta il più piccolo dei suoi 5 figli nella brezza secca e leggera della sera, «non è passato un giorno senza che pensassimo che era finita, che ce ne saremmo dovuti andare, lasciare la nostra terra e le nostre case». Quando stare qui è diventato troppo pericoloso ed è drasticamente diminuita la presenza internazionale, «è diventato tutto ancora più difficile: fino a gennaio, quando sono tornati, non siamo più nemmeno usciti di casa». Però, dice con la semplicità di un dato di fatto che sfida la logica, «siamo rimasti». Da quando internazionali e attivisti israeliani sono di nuovo stabilmente qui, le famiglie sono tornate a coltivare i loro campi, i pastori a pascolare le pecore. Il governo israeliano ne è certamente consapevole: è di aprile la decisione del ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir di formare una sezione speciale della polizia israeliana che si dedichi a scoraggiare la presenza internazionale nei territori occupati della Cisgiordania. Decisione che inizia a mostrare i suoi inequivocabili effetti.
La polizia complice
Il pomeriggio del 3 luglio accompagno alcuni volontari internazionali nel villaggio di Um Dhorit, abitato ormai da una sola famiglia e completamente circondato da avamposti israeliani di recente costruzione. A novembre l’esercito ha demolito la loro casa. Da allora la presenza degli internazionali e degli attivisti israeliani è l’unica, per quanto parziale, tutela rimasta a protezione della famiglia. In serata arriva la notizia che un gruppo di coloni ha appiccato un incendio nel vicino villaggio di Khallet Ad-Dabe’a. Due internazionali si recano sul posto insieme ai palestinesi per documentare la scena.
Da quel momento la situazione precipita. Circa 70 coloni armati e a volto coperto arrivano al villaggio Mufaqara, che si trova sopra la collina, portando taniche di benzina e sparando in aria. Non serve molto tempo a chi si trova sulla scena per capire che è un vero e proprio pogrom. Che l’obiettivo dei coloni è dare alle fiamme l’intero villaggio. Gli attivisti e i palestinesi arrivati sul luogo si mettono in fuga, ma vengono raggiunti dai coloni. Tra loro c’è Michele (nome di fantasia), un attivista della ong italiana Mediterranea Saving Humans, che viene aggredito, picchiato da sei o sette persone, colpito in viso con il manico di una pala e quindi lasciato a terra. Va peggio ad Abbas, palestinese, che, oltre a venire catturato e picchiato dai coloni, viene arrestato subito dopo e portato nella vicina caserma di Kyriat Arba, dove passerà le successive 48 ore senza cure mediche.
Secondo i testimoni, durante i pestaggi esercito e polizia stazionano a poche decine di metri senza fare nulla per fermarli. Nessun colono viene fermato. Di Michele, a cui durante il pestaggio viene distrutto il cellulare con cui stava riprendendo la scena per tutelarsi, si perdono le tracce fino alla mattina del giorno successivo.
Questo episodio di indubbia gravità va letto nel quadro più ampio della strategia studiata dal governo di Netanyahu per disincentivare la presenza internazionale in Cisgiordania. Nell’ultimo mese almeno due degli attivisti italiani detenuti hanno subito il sequestro del passaporto per giorni o settimane. Solo durante la giornata del 7 luglio l’esercito ha arrestato, insieme a quattro palestinesi (tra cui un quattordicenne interrogato per ore senza la presenza di un avvocato o di un genitore), tre attivisti israeliani e un’italiana. Un’attivista israeliana è stata attaccata dai coloni. La mattina dell’8 luglio la famiglia Hureini si sveglia trovando le 200 piante di vite sradicate, il campo distrutto. Al villaggio di At Tuwani scrollano le spalle, qualcuno parte, altri arrivano, un mezzo sorriso, un po’ di rinnovata tristezza, nessuna sorpresa, si va avanti. È così da tanto tempo. È stata una settimana dura, ma a Mufaqara hanno bruciato una casa sola, il villaggio è ancora in piedi. Il resto si ricostruirà.
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