Una famiglia leggendaria che trascende la propria leggenda», così il Time parlava della dinastia Kennedy. La quale, in quanto tale, mostra luci e ombre, entrambe intense. Proprio sul Time il futuro presidente della Repubblica John Fitzgerald aveva iniziato la sua carriera pubblica e politica, consacrato alla vasta cittadinanza americana concedendogli la copertina quale simbolo di vitalità, potenzialità e giovani della nazione esattamente nell’anno dell’onta dello Sputnik che gettò la società in una profonda prostrazione.

In quel momento JFK era in carica quale senatore dopo essere stato deputato sempre del Massachusetts, lo stato delle celebri e discusse lussuose vacanze, delle residenze maniero di Cape Cod, delle foto pop e del gossip sessuale. In precedenza, in seguito a una operazione alla schiena, scrisse Profiles in Courage, con il quale ricevette il premio Pulitzer per la sezione storia.

Inoltre, aveva iniziato a costruire il suo profilo politico e il prestigio già durante la Guerra allorché, nel 1943, il torpediniere su cui si trovava affondò dopo esser stato colpito dai giapponesi e lui, sebbene gravemente ferito, riuscì a condurre in salvo i commilitoni. La famiglia leggendaria aveva origini irlandesi, e lui si laureò ad Harvard e poi entrò in Marina, arricchendo il suo curriculum.

Il più giovane presidente

John divenne il più giovane presidente, a soli 43 anni (ancora ineguagliato), nel 1960 dopo una campagna elettorale contro il repubblicano Richard Nixon in una contesa che divenne storia. Quattro anni prima aveva tentato la nomination quale vicepresidente, ma senza successo. I dibattiti con Richard Nixon divennero celebri e fecero scuola e la storia: il candidato repubblicano durante il primo dibattito presso gli studi televisivi della Cbs a Chicago apparve stanco anche in virtù di un colpo al ginocchio nel tragitto che ne aggravò il dolore.

Nixon mostrò disagio già dalla prima inquadratura, e quell’impaccio evidente fece il paio con la “barba delle cinque della sera” che pensò di celare con un prodotto cosmetico che però inizio a fondere sotto il calore dei fari dello studio tv. Il tutto in palese contrasto con la recente abbronzatura californiana di JFK. Da un lato un candidato aitante, fresco, brillante; dall’altro uno stanco, affaticato, trasandato. I sondaggi, implacabili, sancirono che il rampollo democratico aveva nettamente prevalso tra i 70 milioni di telespettatori che avevano seguito il dibattito, mentre Nixon ebbe il netto favore dei radioascoltatori.

Segno di un cambio di paradigma nelle campagne elettorali e di opposti profili degli elettori dei due contendenti. I quali, nel voto popolare, rimasero divisi da una misera incollatura, con Kennedy al 49,7 per cento e Nixon al 49,5 per cento, ossia una manciata di schede, poco più di diecimila, un’inezia. Nixon tra l’altro prevalse anche in un numero di stati maggiore (26) rispetto a Kennedy (22), sebbene non bastò a colmare lo squilibrio nel Collegio elettorale.

«Nuova frontiera»

Nella campagna elettorale, il fratello Robert ricoprì il ruolo di coordinatore, per poi essere nominato ministro della Giustizia, e suo cognato quale responsabile dei Peace Corps; a proposito di uso politico della famiglia, e viceversa. Bob, la vera mente politica del duo Kennedy, rimase anch’egli vittima della mano omicida mentre correva per le primarie democratiche nel 1968.

Di fronte alla biblioteca di Dallas, mentre passa il corteo presidenziale per una visita texana, JFK viene invece assassinato dai colpi di fucile esplosi da Lee Oswald e quasi certamente da altri non identificati, per una delle pagine più buie della storia americana contemporanea. Quei proiettili varranno a JFK anche un altro primato, sebbene infausto: quello di essere il presidente più giovane a morire. Terminava così la saga dei fratelli democratici che segnarono gli anni Sessanta e il sogno della “nuova frontiera” indicato da JFK.

Nel discorso inaugurale usò una forma retorica entrata nel linguaggio corrente e variamente declinata: «Ask not what your country can do for you, ask what you can do for your country». Che oltre a essere una bella frase a effetto, uno stimolo al civismo e all’attivismo politico e al patriottismo, contiene anche un malcelato implicito significato di colorazione liberista in ambito economico, o quanto meno una riduzione del ruolo dello stato (certamente rispetto all’epoca roosveltiana) e anche un involontario assist per i futuri neoconservatori reaganiani che sarebbero giunti presto.

JFK fu il primo presidente cattolico, dopo la candidatura non vincente di Al Smith nel 1928. La presidenza del trentacinquesimo inquilino della Casa Bianca iniziò da subito con un inciampo in politica estera che ebbe ripercussioni sulla popolarità interna. Kennedy permise a un gruppo di esuli cubani, armati e addestrati, di tentare di invadere l’isola castrista per rovesciare il regime con il sostegno della Cia. Da allora Baia dei Porci è divenuto sinonimo di fallimento militare e strategico.

Sempre a Cuba si consumò la seconda prova politico-diplomatica che forgiò l’amministrazione, dimostrando anche le abili doti negoziali di Kennedy. La crisi dei missili del 1962 nacque dalla volontà dei sovietici di installare a Cuba dei missili balistici con testata nucleare. La ricognizione aerea che fece scoprire le rampe di lanciò provocò una reazione di terrore, ma anche di nazionalismo, e una conseguente azione diplomatica e militare per evitare che il “cortile di casa” degli Usa fosse occupato dai comunisti. La quarantena imposta da JFK a tutte le armi offensive dirette a Cuba servì non solo a rispondere all’Urss, ma anche a guadagnare tempo per intavolare una discussione con l’omologo sovietico Nikita Chruščëv.

Il mondo camminò in bilico sul ciglio della guerra nucleare, che fu scongiurata anche per la freddezza di JFK che non seguì i falchi del suo gabinetto. Da quella crisi nacque una nuova consapevolezza sul rischio nucleare e anche la necessità di avere un “filo rosso” permanente tra Mosca e Washington per evitare il rischio che la situazione precipitasse per mancanza di comunicazione. Give peace a chance. Si arrivò nel 1963 al trattato che bandiva i test nucleari firmato da Usa, Urss e Gran Bretagna.

Le tensioni con comunisti e Patto di Varsavia erano altissime, derivanti dal confronto tra sfere d’influenza che culminò con la costruzione del Muro di Berlino. «Ich bin ein Berliner!», scandì Kennedy nella piazza tedesca gremita di cittadini osannanti: l’America intendeva fermare l’influenza sovietica in Germania, pur nel rispetto del tratto di Potsdam.

Del resto, JFK era un impenitente anticomunista, a tratti conservatore. La virata progressista sul fronte interno derivò proprio dai citati problemi nell’agenda estera. Nel 1963 avanzò un progetto legislativo che gli permettesse di uscire dalla secche diplomatiche e dalle difficoltà interne. Il Civil Rights Act fu una scelta netta rispetto a precedenti tentativi meno decisi e contribuì a costruire l’aurea del presidente ultra liberal.

Dodici grandi elettori, di Alabama e Mississippi, al momento del voto sul candidato vincente post presidenziali avevano deciso di sostenere Harry Byrd, senatore e fervente segregazionista; la questione razziale era (e rimane) ancora molto cruda e cruenta, e divisiva.

Tutto contribuisce a costruire il mito di JFK nonostante la sua esperienza politica e parlamentare fosse stata incentrata su linee non proprio progressiste e la vita privata non fosse stata sempre proprio ligia. “Happy Birthday, Mr President” cantata da una Marilyn Monroe in versione Jessica Rabbit ante litteram durante il penultimo genetliaco di Kennedy è emblematica della doppia amorale kennediana e dei democratici. La saga del matrimonio con Jacqueline ispirò favole patinate, pettegolezzi ed emozioni.

Nuova generazione

Kennedy si era rivolto alla “nuova generazione” di americani, puntando sull’empatia e sul suo innegabile carisma anche per coinvolgere le forze più avanzate della società. Il presidente si ritrovò in difficoltà di sintonia politica con il Congresso e con il suo partito, che pure controllava entrambi i rami del legislativo, il che generò non poche tensioni.

Tentò di perseguire il programma elettorale di rimettere in moto l’America, e l’azione economica consentì al paese di avere una lunga e sostenuta espansione con una media del 5 per cento di Pil. Nei primi due anni fu molto attivo, sostenendo l’approvazione di alcune leggi che aumentavano il salario minimo (1,25 dollari all’ora), l’assistenza federale per l’istruzione, l’assicurazione medica per gli anziani e nuovi piani di edilizia pubblica; un attacco significativo alle sacche di povertà, ma anche ingenti tagli di tasse.

Sul piano dei diritti e della pace, l’istituzione dei Peace Corps rappresentò forse il segno dell’idealismo kennediano soprattutto per i paesi in via di sviluppo.

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