Oggi ci sono le elezioni in Serbia, che per l’ennesima volta non sono provocate da una caduta del governo, ma da meri calcoli politici che servono il solo obiettivo di rafforzare Vucic e il suo regime in Serbia
Non c’è da aspettarsi una reale svolta dalle elezioni parlamentari che si terranno oggi in Serbia a meno di due anni dall’ultima tornata elettorale. In testa ci sono i progressisti (Sns) del presidente serbo Aleksandar Vucic, che viaggiano intorno al 44 per cento secondo i sondaggi, percentuale che permetterebbe di replicare la coalizione al governo con il partito socialista serbo (SPS) del leader filorusso, Ivica Dacic.
L’unica reale posta in gioco è Belgrado dove il fronte delle opposizioni potrebbe aggiudicarsi una partita persa di un soffio alle ultime amministrative del 2022. Belgrado sarà il banco di prova che certificherà la crisi di popolarità dell’uomo forte della Serbia e del suo regime, saldamente al comando del paese dal 2012.
Gli avversari di Vucic
A scalfire la cattura dello stato operata da Vucic con il controllo di media, economia, giustizia, potrebbe essere l’ampia coalizione liberal e pro-europeista "Serbia contro la violenza” nata sull’onda lunga delle proteste suscitate dalle sparatorie di massa del maggio scorso che hanno provocato 19 morti. Sparatorie che per una parte dell’opinione pubblica, sono figlie di una ‘cultura della violenza’ alimentata dai partiti al governo e instillata quotidianamente sui media e persino nelle scuole. L’ondata di indignazione che ha scosso il paese ha portato per mesi migliaia di manifestanti nelle piazze, non solo nella capitale.
Seppure le dimissioni del governo siano state una delle richieste provenienti dalle piazze, la decisione di indire nuove elezioni andrebbe ricollegata soprattutto all’attentato terroristico del 24 settembre nel nord del Kosovo ad opera di un gruppo di paramilitari serbi.
Un attacco orchestrato e finanziato, secondo Pristina, proprio da Belgrado, che avrebbe tentato una sollevazione nel nord del paese, a maggioranza serba, teatro di cicliche crisi, acuitesi negli ultimi due anni. Un riflesso della guerra di aggressione russa contro l’Ucraina e dei tentativi di Bruxelles e Washington di scongiurare l’apertura di un secondo fronte nei Balcani, a partire dai nodi irrisolti delle guerre degli anni Novanta, il Kosovo e la Bosnia-Erzegovina.
Il nodo kosovaro
Il tentativo è andato fallito anche (ma non solo) dall’indisponibilità di Belgrado a raggiungere un accordo, mediato da Ue e Stati Uniti, per normalizzare le relazioni con il Kosovo, artificio diplomatico dietro cui si cela un riconoscimento de facto dell’ex provincia serba come Stato sovrano, in cambio di una prospettiva, giudicata ormai poco realistica, di una futura adesione della Serbia in Ue. La strategia di Vucic finora è stata quella, elementare e complessa allo stesso tempo, di prendere tempo per sottrarsi alle pressioni dell’Occidente, intensificatesi proprio all’indomani dell’attacco armato di Banjska.
Ma nella visuale di Vucic il quadro è destinato a cambiare nei prossimi mesi. E il vento potrebbe girare a suo favore, con la fine della guerra in Ucraina, le elezioni europee di giugno che potrebbero spostare l’asse dell’Ue più a destra, e le presidenziali degli Stati Uniti a novembre ed un eventuale ritorno di Donald Trump alla guida del paese.
È questo l’orizzonte temporale in cui si collocano le elezioni in Serbia, che per l’ennesima volta non sono provocate da una caduta del governo, ma da meri calcoli politici che servono il solo obiettivo di rafforzare Vucic e il suo regime in Serbia, presentato in campagna elettorale come l’unico in grado di far fronte ai «molti conflitti e disordini» paventati da Vucic per il prossimo anno, non solo in Kosovo, ma anche in Republika Srpska, una delle due entità, a maggioranza serba, della Bosnia-Erzegovina.
Difficile che la mossa di Vucic sia un azzardo, sebbene la Serbia che si reca oggi alle urne sia un Paese profondamente polarizzato, frustrato dalla morsa autoritaria impressa da Vucic e piegato da un’inflazione galoppante. Questioni queste cui il regime ha risposto con una feroce campagna identitaria che mira a far apparire l’establishment al potere come il solo difensore degli interessi della Serbia nei Balcani e a livello internazionale. Una strategia ben rodata, destinata a rivelarsi ancora vincente.
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