Tanto rumore per nulla. Per come viene presentato, l’accordo tra Israele e Hezbollah è sostanzialmente una replica della risoluzione Onu 1701 del 2006. Diciotto anni dopo e, soprattutto, quattordici mesi dopo un conflitto armato sempre più distruttivo e sanguinoso, le parti tornano al punto di partenza, abbandonando il massimalismo che ha caratterizzato questo nuovo round di guerra mediorientale.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che voleva sradicare Hezbollah dal Libano accetta ora di vedere i combattenti libanesi spostarsi di alcuni chilometri più a nord, oltre il fiume Litani. Il Partito di Dio che fino a settembre insisteva nella logica del “fronte comune” con Hamas a Gaza, accetta ora di siglare col nemico un accordo bilaterale.

Un accordo ambiguo

Anche gli altri attori si sono accontentati di un testo ambiguo, che lascerà inevitabilmente spazio a Israele e a Hezbollah per denunciare la violazione di quello o quell’altro termine dell’accordo stesso.

L’amministrazione del presidente Joe Biden è l’attore che sembra aver avuto più fretta di altri. Questo emerge anche dal cronoprogramma inserito nell’intesa: 60 giorni, il tempo che ci separa dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Spinti dalla fretta politica, i negoziatori americani hanno consapevolmente spinto le parti a tralasciare quei nodi gordiani che dal 2006 e che ancora oggi costituiscono le principali insidie per una genuina risoluzione del conflitto tra Hezbollah e Israele.

Il primo nodo è l’assenza di reali strumenti per costringere, da una parte, Israele a ritirarsi dal territorio libanese e a cessare le violazioni aeree, marittime e terrestri contro il Libano e, dall’altra, Hezbollah a ritirarsi oltre il Litani, a disarmare e a smettere di costituire una minaccia contro Israele. Il secondo nodo, legato al primo, riguarda la complessità tecnica e politica dell’operazione di dispiegamento dell’esercito regolare libanese nel sud del paese. Il terzo nodo è la presenza di un comitato di controllo del cessate il fuoco non certo imparziale, composto da attori tutti più o meno alleati o quasi di Israele.

Sul primo punto il governo di Netanyahu rimane padrone dell’arena. Domenica scorsa il premier israeliano è arrivato ad affermare che «decideremo noi cosa sarà considerata una violazione (dell’accordo)». Perché per come l’accordo è stato presentato, gli israeliani hanno ottenuto dagli americani la garanzia che, «in caso di violazione da parte di Hezbollah o di altri attori in Libano», Israele tornerà a fare la guerra. Né è affatto chiaro quando e come l’esercito israeliano si ritirerà dal sud del Libano.

Questa è una variabile strettamente legata a ciò che farà Hezbollah, se attenderà il ritiro israeliano prima di arretrare oltre il Litani, un fiume che – è bene ricordare – nel suo corso orientale corre solo pochi chilometri a nord dalle colonie israeliane. Il partito libanese rimarrà dunque una minaccia anche perché il suo arsenale è dotato di missili di media e lunga gittata. Nella bozza di accordo infatti non è presente alcun riferimento alla necessità di disarmare Hezbollah, come invece affermava la risoluzione 1701, richiamando la 1559 del 2004.

Il secondo punto riguarda la presenza dei soldati libanesi nel sud del Libano accanto alla missione Unifil, già dispiegata dal 1978. Il governo libanese ha detto di essere pronto a dispiegare cinquemila uomini. In realtà, ne servirebbero almeno quindicimila. Eppure, nei giorni scorsi, i ministri del governo dimissionario di Beirut, hanno litigato anche per come stanziare i fondi per i primi 1.500 soldati da inviare al fronte. Al dato tecnico si aggiunge quello politico: nonostante gli aiuti logistici e finanziari occidentali promessi alle forze armate libanesi, queste non potranno di certo imporre il proprio monopolio della violenza a detrimento di Hezbollah e della sua comunità di sfollati. Perché ciò possa accadere servirà un serio e protratto processo di negoziazione interno, che dovrà necessariamente tener conto dei delicati equilibri sociali e politici libanesi.

Non potrà certo essere - e questo è il terzo punto problematico della bozza di accordo - un commissariamento filo-israeliano del sud del Libano, con una cabina di regia americana sostenuta dai francesi, dagli egiziani, dai giordani e dagli emiratini a garantire che le cose vadano come sperano alla Casa Bianca.

EPA

Il ruolo di Iran e Russia

Da più parti si afferma che l’Iran ha tutto l’interesse a far sì che Hezbollah rispetti il cessate il fuoco. In questo senso, sembra che Teheran abbia già ottenuto dagli Stati Uniti una serie di concessioni sul tema del nucleare e che abbia trovato da parte saudita la volontà a un coordinamento di sicurezza nella acque del Golfo. Si tratta però di equilibri in continua evoluzione e di una dinamica che non può essere governata da un unico attore regionale. Per questo si chiama in ballo la Russia. In quanto padrona della situazione nella vicina Siria, Mosca potrebbe avere la chiave per poter interrompere i flussi di rifornimenti iraniani a Hezbollah. Ci si chiede però cosa potrebbe chiedere in cambio il presidente Vladimir Putin per favorire l’uscente amministrazione americana in un momento così delicato della guerra in Europa orientale.

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