Pastore amato dal mondo, riformatore frustrato della chiesa, accentratore dei poteri di governo. In questi dieci anni le ambizioni rivoluzionarie di Bergoglio si sono duramente scontrate con la realtà. Sugli abusi e la riforma delle finanze la distanza fra promesse e risultati è enorme, mentre su ambiente e agenda sociale ha ottenuto risultati apprezzabili. Bilancio di un pontificato non ancora concluso, ma comunque irrisolto
- Il chiaroscuro che ha caratterizzato i dieci anni di pontificato dipende dalla distanza che si percepisce tra il programma di governo e le sue realizzazioni: molto ambizioso il primo, finora parziali e contraddittorie le seconde.
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I due ultimi predecessori di Francesco si sono dimostrati poco interessati al governo e su questo piano anche i risultati del decennio bergogliano più che essere risolutivi aprono interrogativi. Problematici sembrano soprattutto il depotenziamento della segreteria di Stato e il conseguente accentramento diretto del potere nelle mani del papa.
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La tragedia degli abusi, sessuali e di potere, commessi dal clero contro minori e contro donne religiose rimane la questione aperta più drammatica per Francesco.
I dieci anni di papa Francesco vanno letti in chiaroscuro. Ovviamente a causa della difficoltà di valutare un pontificato che, certo non concluso, è comunque molto controverso.
Ma i toni grigi che lo caratterizzano dipendono anche, se non soprattutto, dalla distanza che si percepisce tra il programma di governo – non esplicitamente dichiarato ma piuttosto chiaro – e le sue realizzazioni: molto ambizioso il primo, finora parziali e contraddittorie le seconde.
Bisogna aggiungere che il pontificato di Jorge Mario Bergoglio è in genere esaltato oppure denigrato. La figura di Francesco – papa molto mediatico, che riscuote consensi in particolare tra i non cattolici – di rado è analizzata nelle cronache e nelle pubblicazioni, moltiplicatesi in questi anni con scarso senso critico.
Il decennale dell’elezione ha amplificato questa tendenza, come ha sottolineato Il Sismografo, l’autorevole sito specializzato in informazione religiosa diretto da Luis Badilla.
E come conferma il profluvio d’interviste organizzate anche in questi ultimi giorni dal papa, che in modo paradossale è arrivato a ripetere, sul quotidiano argentino La Nación, di non amarle.
Per situare meglio questo decennio, al di là del profilo complesso di Jorge Mario Bergoglio, va ricordato che la sua elezione non nasce all’improvviso. Il gesuita arcivescovo di Buenos Aires comincia infatti a essere pronosticato come papabile sin dal 2002, solo un anno dopo la sua creazione cardinalizia, ed è votato già nel conclave del 2005, che elegge con grande rapidità Joseph Ratzinger.
Otto anni più tardi, nella situazione di evidente crisi del governo centrale della chiesa, i cardinali – in buona parte sorpresi e smarriti a causa della rinuncia di Benedetto XVI – scelgono quasi altrettanto velocemente Bergoglio.
Bisogna poi tenere presente che nel 2013 la sede vacante è stata insolitamente lunga. Quella formale ha avuto una durata, come ormai accade da oltre due secoli, di un paio di settimane, ma questo periodo – che è occupato da dibattiti, confronti e riflessioni sulla successione papale – viene di fatto raddoppiato, arrivando a estendersi per un intero mese, durante il quale si è pensato in modo molto concreto a preparare l’elezione.
L’11 febbraio la dichiarazione di Benedetto XVI, che avrebbe lasciato il pontificato alle ore 20 del 28 febbraio, ha allungato la sede vacante canonicamente tale perché vi aggiunge oltre due settimane.
Durante le riunioni precedenti il conclave, il 9 marzo prende la parola l’arcivescovo di Buenos Aires. «La chiesa – dice – è chiamata a uscire da sé stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria».
Affermazione programmatica, destinata a essere molto citata, che è ribadita nella conclusione, dove Bergoglio traccia anche il profilo del papa da eleggere, cioè «un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l’adorazione di Gesù Cristo, aiuti la chiesa a uscire da sé stessa verso le periferie esistenziali».
La sera del 13 marzo, dopo poco più di un giorno di votazioni, il risultato è una sorpresa per molti. Soprattutto nella Conferenza episcopale italiana, il cui ufficio stampa incorre in un increscioso e imbarazzante infortunio: i giornalisti accreditati ricevono infatti per posta elettronica – e ovviamente rimbalzano dappertutto – un messaggio di congratulazioni al nuovo papa, Jorge Mario Bergoglio, che però nel testo accompagnatorio è identificato con il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, svelando così le attese diffuse nell’apparato ecclesiastico della penisola.
Le prime parole
Enorme è comunque l’impatto del breve discorso di Francesco, che si presenta come «preso quasi alla fine del mondo». Le brevi parole possono tuttavia essere lette in parallelo a quelle di Giovanni Paolo II, che nel 1978 aveva spiegato di essere venuto da un «paese lontano».
Comuni a entrambi sono anche l’autodefinizione, peraltro ovvia, di «vescovo di Roma», ma anche il pensiero rivolto alla Madonna. E un immediato successo mediatico riscuotono anche i primi gesti del nuovo papa: tra questi soprattutto la decisione, che fa ancora notizia, di non abitare «l’appartamento» del Palazzo apostolico bensì un piano nella residenza – periferica nel minuscolo stato vaticano – di Santa Marta, divenuta in questi anni quasi sinonimo del papa argentino.
Papa Francesco inaugura il pontificato il 19 marzo, festa di san Giuseppe, una figura a lui molto cara e il cui simbolo, un fiore di nardo, spicca nel suo stemma episcopale sotto il nome di Gesù e accanto alla stella che indica Maria.
E l’omelia – incentrata sullo sposo della Vergine, che appena s’intravede nei vangeli e che il pontefice presenta tradizionalmente come «custode» – è di fatto un breve suggestivo programma, per il papa di Roma e l’intera chiesa.
«Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il vescovo di Roma è chiamato a compiere ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza», conclude Bergoglio.
Esausto e ritirato nell’amata residenza di Castel Gandolfo, il suo predecessore Benedetto XVI non è presente alla messa d’inizio del pontificato, e tornerà in Vaticano soltanto alcune settimane più tardi, quando sarà pronto il «monastero» nel cuore dei giardini.
Ma certo la coabitazione dei «due papi» – come ci si abitua impropriamente (o polemicamente) a dire – segna i primi dieci anni di Francesco, concludendosi solo il 31 dicembre scorso alla morte del «papa emerito», quasi novantaseienne, una morte ovviamente non inattesa ma certo repentina.
Coesistenza e convivenza
La coesistenza davvero senza precedenti, a poco meno di un chilometro l’uno dall’altro, di due figure papali molto diverse tra loro – per origine, carattere, formazione e visione del mondo – poteva rivelarsi un problema per il pontificato di Bergoglio, anche per l’ingombrante statura intellettuale di Ratzinger, uomo peraltro mite e davvero distaccato dal potere.
La convivenza in Vaticano è stata invece tutto sommato abbastanza tranquilla, grazie alla lealtà e al rispetto di fondo che hanno caratterizzato i rapporti tra il papa e il suo predecessore e hanno permesso di superare gli incidenti di percorso.
Questi sono stati quasi sempre causati, al di là delle obiettive diversità dei punti di vista, dai rispettivi sostenitori, più papisti dei due papi, a volte con un’inguaribile tendenza al protagonismo e alla cortigianeria.
Forte delle indicazioni emerse durante le riunioni precedenti il conclave alle quali sempre si richiama, Francesco è comunque del tutto estraneo al piccolo mondo vaticano e ha intrapreso con vigore il compito di cambiarlo.
Sin dal medioevo obiettivo di critiche più che fondate, la curia romana è segnata da una inveterata autoreferenzialità e da strutture che restano antiquate, nonostante le diverse riforme.
E i venti di cambiamento – che dopo il Concilio Vaticano II hanno soffiato con forza soprattutto durante il pontificato davvero innovativo di Montini, profondo conoscitore della curia e sensibilissimo nei confronti del mondo contemporaneo – si sono in seguito indeboliti.
Poco infatti hanno inciso sulle strutture curiali le personalità, diversissime tra loro, di Wojtyła, protagonista sulla scena mondiale per oltre un quarto di secolo, e di Ratzinger, intellettuale di prim’ordine, nonostante le trasformazioni connesse al lungo papato non più italiano.
I due ultimi predecessori di Francesco si sono in definitiva dimostrati poco interessati al governo e su questo piano anche i risultati del decennio bergogliano più che essere risolutivi aprono interrogativi.
Problematici sembrano soprattutto il depotenziamento della segreteria di Stato e il conseguente accentramento diretto del potere nelle mani del papa.
Sintomatico in proposito è il fatto che il pontefice – come era prima della riforma radicale di Paolo VI – è tornato a presiedere direttamente un organismo curiale, il nuovo Dicastero per l’evangelizzazione, che ha inglobato l’antica congregazione di Propaganda fide, un tempo talmente potente (e ricca) che il cardinale prefetto era noto come «papa rosso», ora invece un po’ sbiadito con il titolo di «pro-prefetto».
Nodi geopolitici
I nodi affrontati dal papa americano in questo decennio sono molti ma restano in buona parte ingarbugliati, su uno scenario internazionale che quasi subito Francesco definisce con efficacia una terza guerra mondiale «a pezzi».
Su questo non riesce a incidere molto, nonostante il consueto impegno della diplomazia della Santa sede e il ritmo dei viaggi internazionali, identico a quello dei predecessori non italiani, cioè in media quattro all’anno (quasi la metà del totale nelle «periferie» europee).
E critiche – per le complicazioni politiche e religiose derivate – hanno più volte suscitato le affermazioni del papa, nel contesto peraltro molto colloquiale di interviste giornalistiche, come soprattutto quelle sulla guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina, e come ora la sferzante e inattesa condanna della dittatura in Nicaragua dopo molti mesi di silenzio.
Grazie invece alla lungimirante visione mondiale dell’enciclica Laudato si’, pubblicata nel 2015, è stato pienamente raggiunto dal pontefice l’obiettivo di sensibilizzare, ben oltre i confini cattolici, l’opinione pubblica internazionale sulla questione dell’ambiente e del cambiamento climatico.
Si tratta infatti di una enciclica sociale di respiro mondiale: secondo il testo sono infatti i poveri a essere maggiormente penalizzati dalle trasformazioni del clima e dell’ambiente spesso indotte dall’uomo.
Il documento non si limita all’ecologia, guarda all’uomo, e s’inserisce in una visione del mondo antica, non a caso condivisa dalla sensibilità di Bartolomeo, il patriarca di Costantinopoli, esplicitamente citato all’inizio del testo.
Al fronte interno Francesco ha dedicato già nei primi mesi del pontificato l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, un documento programmatico molto ampio. Ma impellenti si sono rivelati soprattutto alcuni nodi.
L’intricata realtà economica e finanziaria vaticana, il tragico scandalo mondiale degli abusi a danno di minori e di religiose, il ruolo dei laici e in particolare delle donne all’interno della chiesa, il rapporto tra Roma e le chiese locali – con questioni aperte soprattutto negli Stati Uniti e in Germania – sono infatti i quattro principali ambiti dove lo sforzo del papa si è concentrato.
Utile per orientarsi nel decennio bergogliano è l’importante libro appena uscito in Argentina con il titolo El Pastor, di Francesca Ambrogetti e Sergio Rubín, autori nel 2010 dell’altrettanto ineludibile El Jesuita, tradotto in italiano subito dopo l’elezione.
Ma se il primo volume era un classico libro intervista che anticipava molti temi del pontificato, questo secondo – a lungo elaborato attraverso incontri «regolari» con Francesco, ma dove le vere novità non sono moltissime – intreccia con abilità un racconto, autorizzato e ben condotto, alle risposte del papa, che ha anche scritto un breve prologo.
Già nel 2001, mentre si accentuava il declino fisico dell’ottantunenne Giovanni Paolo II, l’arcivescovo di Buenos Aires aveva descritto ai corrispondenti stranieri il profilo del nuovo papa come quello di un «pastore».
Bergoglio scrive di aver cercato di esserlo nei dieci anni di pontificato, con il proposito «di essere fedele a Dio e alla chiesa e utile ai cattolici e a tutti gli uomini di buona volontà». E questo ha confermato nell’intervista appena uscita su La Nación rispondendo alla domanda su come immagina la chiesa tra vent’anni: più pastorale.
Il libro è interessante per diversi dettagli sulla storia personale e l’autorappresentazione di Bergoglio, al punto da comprendere persino un questionario dove il papa risponde, senza esitare e con compiaciuta ironia, alla domanda sul suo nome preferito: «Jorge Mario… E sarei egocentrico?».
Al di là di altri particolari, El Pastor ricostruisce, dal punto di vista del pontefice, la sua lotta per riordinare le intricate realtà economiche e finanziarie vaticane, sulle quali grava da decenni il peso della corruzione.
Finanze e abusi
Molto criticato dai media internazionali più che in Italia, il processo in corso in cui è coinvolto il cardinale Becciu, fino al 2018 uno dei più stretti collaboratori del papa, viene così letto significativamente sullo sfondo del ridimensionamento della segreteria di Stato e del processo di valutazione di Moneyval.
Ancor più drammatica è la tragedia degli abusi, sessuali e di potere, commessi dal clero contro minori e contro donne religiose. Fondamentale, come ha riconosciuto più volte papa Francesco, sono state le misure prese da Ratzinger – prima come cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e poi durante gli otto anni del pontificato – e apertamente dichiarata è la volontà di Bergoglio nel contrastare questo scandalo.
Ma rivelazioni di crimini nuovi o del passato si susseguono quasi quotidianamente e le affermazioni del papa sono contraddette da casi come quelli che hanno coinvolto i vescovi Gustavo Zanchetta in Argentina e Franco Mulakkal in India, oppure il gesuita Marko Rupnik, artista internazionalmente conosciuto.
Nel mondo, come anche in Vaticano e in Italia, l’esempio coraggioso dei vescovi francesi non è stato unanimemente apprezzato, per ricorrere a un eufemismo.
Su questo fenomeno e sulla «lotta di Francesco contro gli abusi» è appena intervenuto con un lungo studio storico e legislativo, pubblicato dalla rivista spagnola Vida Nueva, un esperto del Dicastero per la dottrina della fede, Jordi Bertomeu. Il prete spagnolo sottolinea tra l’altro come il viaggio del pontefice in Cile nel gennaio del 2018 sia stato uno spartiacque per quella che la rivista definisce «la conversione personale di un papa».
Poi l’ufficiale dell’antico Sant’Uffizio – che sugli abusi in Cile ha indagato per conto di Bergoglio insieme all’arcivescovo maltese Scicluna – conclude ammettendo che «la crisi degli abusi nella chiesa, lungi dall’essere risolta, è una sfida per la nostra esperienza di fede e la nostra proposta evangelizzatrice».
Aperti restano infine i fronti costituiti dall’emarginazione e dalla minimizzazione dei laici, e in particolare delle donne, all’interno della chiesa.
Ci sono naturalmente eccezioni, come l’ultima in Slovenia, dove i vescovi hanno nominato segretario generale della conferenza episcopale una religiosa salesiana, Marija Šimenc. Ma sono appunto eccezioni.
E se papa Francesco confida che il processo sinodale in corso in tutto il mondo possa cambiare la mentalità, riconosce anche che si tratta di processi molto lunghi. Con molte contraddizioni e inversioni di rotta, come hanno dimostrato questi dieci anni.
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