Finora il sistema della Russia ha dimostrato stabilità. Ma è difficile credere che possa durare per sempre. Il bilancio per 2025-2027 mostra un quadro tragico, soprattutto per quanto riguarda investimenti sul welfare
«Quanto regge?». È la domanda che quasi tutti gli osservatori si fanno dal giorno in cui la Russia ha mosso guerra all’Ucraina. L’invasione in grande stile e le prime settimane di conflitto sembravano implicitamente dire che Mosca avesse preparato uno sforzo militare breve e molto concentrato. Poi il campo di battaglia ha detto altro e oggi siamo a due anni e otto mesi di scontro bellico.
«C’è stanchezza da entrambe le parti», disse nella famosa intercettazione, circa un anno fa, la presidente Giorgia Meloni. Oggi, la sensazione generale sembra diversa, con il mondo occidentale appeso alle elezioni americane e la Federazione russa impegnata nella sua inesorabile offensiva.
Chi accredita alla Russia una stabilità economica di fondo ha argomenti forti. Dmitry Nekrasov – vice capo del dipartimento analitico del Servizio fiscale federale russo (2010-12), esperto del Case, il Center for Analysis and Strategies in Europe – osserva che la Russia spende per il settore difesa circa il 9 per cento del Pil, più o meno la stessa percentuale che l’Arabia Saudita ha speso negli ultimi 20 anni e che gli Stati Uniti hanno sostenuto dal 1955 al 1975. Per non parlare di Israele, che dal 1967 al 1993 ha speso in difesa il 19 per cento del Pil.
Dunque vi sono esempi di economie di mercato nelle quali una spesa simile è stata sostenibile nel lungo periodo e ha addirittura portato il Pil a crescere (cosa che, vedremo, sta accadendo anche in Russia). Interpellato sulle differenze di contesto, Nekrasov risponde: «Sì, esistono differenze di contesto ma quest’ultime sono in favore della Russia. Nei 22 anni prima della guerra, la Russia ha avuto un surplus di bilancio medio pari all’1 per cento del Pil, un surplus commerciale dell’8,9 per cento del Pil e un debito statale pari a solo il 17 per cento del Pil. Nessuno dei paesi citati ha mai avuto nulla di paragonabile. Stati Uniti e Israele sono stati in deficit». Dobbiamo dunque pensare a un conflitto a lungo pianificato? Nekrasov ribatte: «Non lo so, dubito che lo sia stato prima della guerra in Georgia e del famoso discorso di Putin a Monaco nel 2007».
Raccontata così, sembrerebbe una partita chiusa, nella quale il Cremlino gioca di mano e con buonissime carte. Eppure il senso comune dice altro. Perché è molto difficile credere che un’economia e un bilancio inferiori a quelli italiani sostengano per anni, nel parziale isolamento e senza indebolirsi, il peso di spese belliche che arrivano fino a 300 milioni di dollari al giorno.
Un bilancio tragico
A inizio ottobre, il governo russo ha presentato il budget di bilancio 2025-2027. Il quadro è tragico: le spese sociali sono inferiori a quelle per guerra e sicurezza (ormai circa il 40 per cento del totale), molte delle quali, peraltro, classificate, quindi non consultabili. La nebbia dei numeri è diffusa e anche altrove. Non è dato sapere, ad esempio, quali siano i volumi degli scambi in yuan, dollari ed euro. Ma altre cifre non possono essere nascoste. Da settimane il dollaro è a un passo dalla soglia psicologica dei 100 rubli: un parametro spesso usato per regolare la salita del tasso di interesse.
Oggi, di fronte a un’inflazione galoppante (9 per cento) e probabilmente sottostimata – quella percepita è poco sotto il 15 per cento – il tasso ufficiale d’interesse ha toccato la ragguardevole quota del 21 per cento (presto si prevede il 20 per cento). La soglia, altissima, ha costretto lo stato a sostenere, attraverso prestiti statali preferenziali all’8 per cento, i mutui per le case dei privati. Il programma, molto costoso in termini di bilancio, è stato drasticamente ridimensionato la scorsa estate. Ma per dare un’idea dell’esborso, il premier Mišustin ha appena annunciato un altro stanziamento di circa 500 miliardi di rubli, ovvero cinque miliardi di euro (circa), che dovrebbe coprire ciò che ne rimane. E qui veniamo a un punto molto importante, probabilmente nodale.
Fattori bellici
Perché così tanti russi comprano casa, costringendo lo stato peraltro a rimetterci denaro? Perché nel 2023 i salari reali (aggiustati per l’inflazione) e il reddito disponibile sono aumentati rispettivamente del 7,8 e del 5,4 per cento. Per chiarire meglio il dato, Mikhail Matovnikov, analista capo di Sberbank (prima banca russa), ha affermato che «circa l’11 per cento della popolazione del paese ha triplicato il proprio reddito in due anni».
Punto d’approdo di tutto è proprio la guerra. Il risultato di questo “benessere” generale si colloca infatti all’incrocio di tre fattori: le centinaia di migliaia di persone mobilitate, il mezzo milione di giovani scappati dal paese e un’industria bellica statale che lavora a pieno ritmo e che è affamata di manodopera.
Da qui, dalla scarsità del fattore lavoro, gli stipendi alti e altri insospettabili benefici: diminuzione dei divari salariali tra uomini e donne, crescita della ristorazione, dell’accoglienza alberghiera, della finanza, delle telecomunicazioni e del commercio. Ecco forse spiegata meglio la sorprendente adesione della popolazione russa al conflitto in Ucraina.
Contano molto censura e propaganda, conta il fatto che i ceti urbani globalizzati abbiano fatto le valigie, conta la repressione, ma conta anche un certo benessere che piove dall’alto dell’economia di guerra, direttamente dalle casse dello stato.
Impossibile
La sostenibilità di questo modello nel tempo è semplicemente impossibile. Già da qualche mese, parecchi segnali raccontano di una Russia arrivata al limite. In un convegno dello scorso giugno, la Banca Centrale ha affermato che «L’economia russa si è rivelata più stabile di quanto molti avevano previsto, ma la “riserva” di fattori che hanno determinato tale dinamica è esaurita». La stessa governatrice, Elvira Nabiullina, ha affermato che il boom dell’industria bellica è arrivato al suo limite fisiologico. La mancanza di valuta pregiata e di capitali esteri rende complicato e molto caro l’approvvigionamento dei beni occidentali (dei quali, in qualche caso, non se ne può fare a meno).
Gazprom – il colosso russo del gas – ha presentato il primo bilancio in predita nei suoi 24 anni di storia. 300 miliardi di dollari sono congelati nelle banche centrali occidentali. Pericolosi segnali di allentamento del controllo del centro sulla periferia sono arrivati dall’attentato terroristico di Mosca e da ricorrenti fatti di violenza nel Caucaso (estremismo islamico).
Di gas e petrolio se ne vende meno, ed è la quotazione del secondo che per ora sta salvando il paese. Lo stesso Nekrasov avverte che «un calo dei prezzi del petrolio di 20 dollari al barile costerebbe al bilancio russo circa la stessa cifra del sostegno alla guerra stessa (non l’intera spesa militare)».
Insomma, la Federazione russa sembra stia preparandosi a tirare i remi in barca. Qualsiasi sia il risultato della guerra in Ucraina, il paese ha davanti molti anni già ipotecati. Che un presidente settantenne e il suo vecchio entourage se ne curino non troppo, è abbastanza comprensibile.
D’altra parte, la fine del conflitto coinciderebbe con lo smantellamento parziale dell’industria della Difesa e con la parziale perdita di consenso sociale. All’indomani dell’invasione in Ucraina, Paul Kennedy, insigne storico e teorico delle dinamiche di potenza, disse che la Russia stava compiendo un passo “overstretched”, troppo lungo. Come sempre, giudicherà la storia, non la cronaca.
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