Avishai Margalit, filosofo e saggista israeliano professore di filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme, ricorda che il premier israeliano Yitzhak Rabin ebbe modo di dichiarare ai tempi della sfida elettorale tra i due che «Netanyahu è un collaboratore di Hamas nel senso che Hamas e il partito conservatore del Likud hanno il medesimo obiettivo politico: sabotare gli accordi di Oslo».

Ma una volta giunto al potere Benjamin Netanyahu ha fatto tanti e tali errori che perfino il compassato The Economist lo ha definito «un pasticcione a ripetizione» (serial bungler) ma è sempre riuscito a risollevarsi utilizzando la politica del risentimento come elemento per tornare in testa ai sondaggi.

Figura divisiva

Se in Israele si andasse alle urne oggi, infatti, il Likud sarebbe il partito che otterrebbe più seggi, 25 secondo un sondaggio di Channel 12. Un anno fa, all’indomani dell’attacco subito da Hamas, i sondaggi assegnavano al Likud 17 seggi. Una cifra in calo rispetto ai 32 seggi che il partito di Netanyahu ottenne nel 2022, riuscendo a formare un esecutivo di coalizione. Ma oggi, secondo lo stesso sondaggio, Netanyahu resta favorito anche per la carica di premier rispetto al leader dell’opposizione centrista Yair Lapid, con il 38 per cento dei consensi contro il 27. Come è possibile se Netanyahu, andato al governo a fine 2022, ha subito forti contestazioni popolari per il suo tentativo di riformare il sistema giudiziario, e in particolare di ridurre i poteri di veto della Corte suprema del paese?

Uno scontro che spaccò la società civile così come avvenuto sulla questione della trattativa per il rilascio degli ostaggi condotti a Gaza da Hamas. Uno scontro che portò, durante il viaggio a Roma del premier Benjamin Netanyahu, alla clamorosa decisione dei piloti e dei membri dell’equipaggio della compagnia di bandiera israeliana di rifiutarsi di decollare per protesta contro la politica del premier proprio in materia di riforma della giustizia, vista come un pericolo per l’assetto democratico del paese.

Non sono pochi i commentatori che accusano Netanyahu di voler condurre una politica di continue guerre a Gaza, nei Territori della Cisgiordania e ora in Libano e nello Yemen per il solo scopo di rinviare il voto ed evitare le sue grane giudiziarie.

Ma ora la lunga carriera politica iniziata da Netanyahu nel lontano 1996, quando sconfisse Simon Peres che aveva preso il posto di Yitzhak Rabin assassinato da un fanatico ebreo dell’estrema destra israeliana, sembra essere ancora, dopo sei volte al governo, sulla cresta dell’onda.

Ora Bibi deve saper seguire le orme di Ariel Sharon, l’ultimo a tentare di muovere le acque ritirandosi da Gaza con l’intenzione di farlo anche dalla Cisgiordania, ma venne colpito da un ictus che bloccò il processo di pace. Se Bibi non saprà opporsi all’estremismo di Ben-Gvir e Smotrich, i leader della destra messianica, e trovare un compromesso, non ci sarà mai un equilibrio durevole tra Israele e i suoi vicini.

La storia politica

C’è un fil rouge nella lunga carriera politica di Benjamin Netanyahu fatto di alcuni punti fermi, come il diritto incontrovertibile di Israele sui Territori occupati e il rifiuto dell’ipotesi di accettare la formazione di uno stato palestinese, tutti elementi coordinati tra loro ed esplicitati nel testo del 1993 A Place Among the Nations tradotto in Israele con Un posto al sole. Qual è la linea politica e ideologica di Netanyahu nei confronti dei palestinesi?

«Diremo ai palestinesi di scordarsi di ottenere uno stato», ha risposto secco 31 anni fa, e le cose per lui non sono mai cambiate sul punto, che fa adombrare il sogno della Grande Israele come lo aveva disegnato a sua volta suo padre, lo storico Benzion, nato Mileikowsky a Varsavia.

Bibi, come viene comunemente chiamato in Israele, ha studiato ad Harvard e al Mit, ha il passaporto americano e nel 1981 Moshe Arens, che all’epoca era ambasciatore negli Stati Uniti, lo nominò come proprio vice all’ambasciata. Questo gli ha permesso di partecipare a numerosi talk show televisivi e di avere una perfetta conoscenza delle regole politiche e comunicative americane, dove si muove con grande abilità.

Nel 1984 Netanyahu venne nominato ambasciatore di Israele alle Nazioni unite, e questo spiega, almeno in parte, la sua capacità di muoversi con disinvoltura nei meandri del Palazzo di Vetro anche nel corso del suo ultimo intervento sul diritto di Israele di difendersi (che nessuno contesta in linea di principio) prima di dare il via libera al bombardamento nella periferia di Beirut, con armi americane, come rivelato dal Washington Post, per colpire il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, la cui morte ha trasformato il Medio Oriente in una carta bianca dove i rapporti di forza tra gli Stati e le organizzazioni sono da ridisegnare completamente.

Nel libro Volti di Israele, il già citato Avishai Margalit, filosofo e saggista israeliano, scriveva nel 1998 che «Netanyahu viene identificato con la guerra al terrore. E poiché in Israele la questione sicurezza è centrale per la politica, avere esperienza in questo campo è un grande vantaggio». Cose passate nel dimenticatoio? Non proprio.

Bibi ha un passato di combattente di un corpo di élite che ha partecipato alla liberazione degli ostaggi del dirottamento del volo Sabena nel maggio 1972. Inoltre egli è il fratello di Yonatan “Yoni” Netanyahu che rimase ucciso mentre comandava l’epica liberazione degli ostaggi di Entebbe nel luglio 1976.

Bibi si è vantato in passato di aver ispirato con i suoi saggi in materia di terrorismo, contenuti nel libro Terrorism, How the West Can Win, del 1986, la decisione del bombardamento della Libia del presidente repubblicano americano, Ronald Reagan, contro il leader libico Muammar Gheddafi. E quando la stampa araba parlò della sua influenza su Reagan per il bombardamento di Tripoli se ne fece un vanto e lo mise sul petto come una medaglia al valore.

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