Secondo l’esperto di Russia, Mark Galeotti, i due anni di guerra in Ucraina hanno rivelato una struttura di potere ancora forte, ma sempre più fragile. Dalla morte di Navalny all’ammutinamento di Prigožin, si moltiplicano i segnali che la storia non va più nella direzione voluta dal Cremlino
«Non credo che la Russia stia vincendo la guerra, siamo ancora nel mezzo di qualche tipo di stallo. Ma Putin pensa di stare vincendo? Questa è una questione del tutto diversa e penso che il presidente russo al momento sia molto ottimista». Mark Galeotti, storico britannico, esperto di crimine internazionale e sicurezza, professore onorario all’University college di Londra, sanzionato dal regime di Putin, è uno degli osservatori della Russia più acuti e popolari. A pochi giorni dal secondo anniversario dell’invasione dell’Ucraina, ha raccontato a Domani come vede la situazione.
La percezione è importante? Cosa significa vittoria per Putin, per gli ucraini e per l’occidente?
Penso sia il punto centrale della questione e una delle nostre principali debolezze, per partire dall’occidente. Non abbiamo affrontato la domanda difficilissima su cosa significhi vittoria per noi. In parte perché sappiamo che ci sono opinioni profondamente diverse. Varsavia ha un’opinione molto diversa da Roma. E quindi abbiamo semplicemente schivato la questione e ripetuto un vuoto mantra sul fatto che sosterremo l’Ucraina per tutto il tempo che servirà.
Per quanto riguarda l’Ucraina ho l’impressione che ci sia uno scivolamento nel senso che si attribuisce alla vittoria. Il costo della guerra sta diventando sempre più evidente. Ho parlato con diversi esponenti del governo e alcuni non sono più interamente convinti della necessità di riprendere la Crimea. Potrebbe non valerne la pena, dicono. Insomma, c’è un dibattito anche in Ucraina, anche se avviene in gran parte dietro le quinte perché nessuno si può permettere il costo politico di deviare dalla linea ufficiale.
Se parliamo della Russia, dobbiamo ricordare che Putin non è il tipo di persona che ha in mente un unico obiettivo specifico che persegue in modo esclusivo. In generale, ciò che Putin vuole è soggiogare l’Ucraina sotto un governo amico e l’annessione dei territori occupati. Ma d’altro canto, deve tenere conto di una considerevole varietà di altre pressioni.
Se per esempio avesse la possibilità di congelare il conflitto, sono sicuro che sarebbe felicissimo di farlo, perché questo non gli impedirebbe nel giro di uno o due anni di fare un altro tentativo di prendere Odessa o qualche altro pezzo di Ucraina. Putin è flessibile, ma ha bisogno di qualcosa che possa vendere a sé stesso, al popolo russo e al resto del mondo come una vittoria. Questo è il punto chiave: tutto riguarda la sopravvivenza politica di Putin, il resto è un di più.
Dopo due anni di guerra c’è qualcosa di quanto avvenuto in Russia che l’ha sorpresa?
Il livello di scontento di fronte alla prima mobilitazione [nell’autunno del 2022]. Per ogni soldato mobilitato, due o tre persone hanno lasciato il paese. Ci sono state proteste e azioni di sabotaggio. Mi pare che sia significativo che anche se sono in diversi nelle forze armate a chiedere da mesi una nuova mobilitazioni, Putin non ha osato farlo e probabilmente non lo farà fino alle elezioni. Questa storia ci ricorda che anche se abbiamo a che fare con uno stato canaglia, una violenta repubblica delle banane, persino questo regime a volte deve muoversi con cautela con la sua stessa popolazione.
L’ammutinamento del leader di Wagner, Prigožin, è stato una di queste sorprese?
Di sicuro è stato un episodio particolare, che ha mostrato il fallimento di molte parti diverse del regime, ma in particolare di Putin, che avrebbe dovuto fermare la rivalità tra Prigožin e il ministro della Difesa Shoigu. Ma Putin, o per sufficienza o perché non sapeva cosa fare, ha lasciato che il problema si incancrenisse. La seconda cosa che mi ha colpito, è che si è trattato di un segnale d’allarme preoccupante per il regime.
Le forze di sicurezza si sono limitate ad assistere agli eventi in attesa di vedere come sarebbero andati a finire. In quel giorno fatale il capo della guardia nazionale Zolotov cercava di mobilitare le sue truppe lungo la linea di marcia di Prigožin e la maggior parte dei suoi comandanti si sono assicurati soprattutto di risultare irreperibili, così da non trovarsi a ricevere ordini che avrebbero dovuto eseguire o rifiutare. Il sostegno principale al regime di Putin è il suo appoggio da parte delle forze di sicurezza.
È stato interessante notare che quando messi di fronte alla necessità di dare un voto di fiducia al regime, in così tanti si siano astenuti. Quello che indica questa storia credo sia una lenta disintegrazione del regime. Putin è ancora forte, non ci sono dubbi. Può arrestare e uccidere chiunque vuole. Ma penso che il regime stia diventando più fragile. La sua capacità di gestire le crisi è ridotta. Nell’amministrazione giorno per giorno va tutto bene. Ma che succede quando arriva l’inaspettato?
Come si inserisce la morte di Aleksej Navalny in questo quadro?
È un altro segnale che il regime è sempre più preoccupato, forse persino spaventato. Lo vediamo nel crescente ricorso alla repressione: dopo l’ammutinamento di Prigozhin il governo ha iniziato a perseguitare persino gli stessi turbo-patrioti che sostengono l’invasione. Non sono del tutto convinto che sia arrivato un ordine specifico di uccidere Navalny, soprattutto perché il tempismo è pessimo per il Cremlino.
Ma d’altro canto, quando è stato deciso di inviare Navalny in un carcere artico, di sottoporlo a un regime brutale di isolamento, era evidente che quello in corso era un omicidio al rallentatore. Si era deciso che Navalny non sarebbe uscito vivo da quella prigione. Sono azioni che parlano di un leader e di un regime sempre più spaventati, coscienti che la corrente della storia non tira più dalla loro parte.
Qual è lo stato della dissidenza e dell’opposizione alla guerra in Russia?
In generale, considero questa una guerra di Putin, non una guerra della Russia. Per me è chiaro che questo non è un conflitto che ha un sostegno maggioritario e di massa nel paese. Consideranto quanto è brutale il regime, penso sia notevole che ci siano ancora russi disposti a protestare, ad aiutare i servizi segreti ucraini, ad attaccare scambi ferroviari o uffici di reclutamento. Insomma, ci sono persone disposte a sabotare il loro stesso paese perché pensano che la guerra sia sbagliata. Mi deprime l’attitudine di alcuni ucraini, che invece parlano di russi come “orchi”, della Russia come Mordor. Perché, se non altro, questa è una profezia che si autoavvera. Se sei del tutto convinto che ogni singolo russo sia tuo nemico, questo è uno dei modi migliori per assicurarti che ogni russo diventi davvero uno dei tuoi nemici.
Alla conferenza per la sicurezza di Monaco, la scorsa settimana, uno dei temi di cui si è più discusso è la minaccia della Russia alla Nato. C’è chi parla di un’invasione entro tre o quattro anni. Cosa c’è dietro queste preoccupazioni?
Un mix di fattori, com’è spesso il caso. C’è un elemento di disconnessione tra il linguaggio dei militari e quello della politica. I militari devono pensare alla peggiore eventualità. Dicono: «Questo è improbabile, ma non del tutto impossibile quindi dobbiamo essere preparati».
E i politici dicono «questo è sicuro o probabile». Secondo: c’è un senso pervasivo e comprensibile, vista la possibile vittoria di Trump all’orizzonte, che l’Europa debba rimettersi in riga sulla sicurezza e che non lo stia facendo. Drammatizzare una potenziale minaccia è un modo per cercare di rendere più coinvolgente questo dibattito.
Terzo: c’è la sindrome da affaticamente ucraino. In questo contesto, il possibile attacco russo è usato per galvanizzare l’opinione pubblica. Come dire: non siamo semplicemente di fronte a una nazione coinvolta in una brutale e imperialistica invasione, ma se non fermiamo i russi in Ucraina, presto arriveranno da noi.
Nel frattempo, si parla molto delle influenze “ibride” della Russia, la sua capacità di sovvertire le nostre democrazie e controllare i nostri politici. È una minaccia più seria?
Trovo sorprendente che molte persone ritengano che la Russia abbia una sorta di magico potere di controllo mentale, che chiunque da, Trump e Orban in giù, sia manipolato dal Cremlino. Non è questo il caso. Quello che fanno i russi è sfruttare le opportunità. È un problema reale, ma non significa la Russia sia in grado di decidere le nostre politiche. I russi hanno cercato di influenzare le elezioni in occidente, ma con un’incredibile mancanza di successo.
Se guardiamo alle prove a nostra disposizione, vediamo che non sono stati i russi a far vincere Trump nel 2016 e quando hanno provato a influenzare le elezioni in Francia e Germania hanno ottenuto risultati controproducenti. Quello che vediamo non è un tentativo di influenzare direttamente le nostre decisioni, quanto piuttosto di sfruttare le nostre debolezze.
I russi prendono le divisioni che esistono già, la presenza di populisti, separatisti o qualsiasi altra, e fanno del loro meglio per esacerbarle, per radicalizzare gli individui. La Russia dà visibilità alla Lega in Italia, incoraggia i separatisti in Catalogna o Scozia, ma in sostanza tutto ciò che può fare è sfruttare le opportunità che noi gli diamo.
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