Sono passati vent’anni da quando ha conquistato la presidenza per la prima volta, e ben 33 dal suo primo tentativo, nel lontano 1989. La barba nera, gli occhi arrabbiati e la voce roca da comizio metalmeccanico facevano paura a un paese uscito da una sonnolente dittatura: all’epoca la tv era tutto e venne facile fermarlo con un trucco sporco.

Ci pensò l’onnipotente rete Globo di Roberto Marinho, all’epoca il tycoon che faceva e disfaceva in Brasile, chiamando a testimoniare una donna che lui aveva obbligato ad abortire. Oggi negli spot di Luiz Inácio Lula da Silva, che di anni ne ha accumulati 77, scorrono invece le strette di mano con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, la sfuggente riverenza alla regina Elisabetta, Barack Obama che lo punta con un dito e dice “he’s the man”, è lui il tipo giusto.

Immagini potenti di inizio secolo alle quali si contrappone quella che lo ritrae tra due poliziotti, accompagnato educatamente e senza manette verso la sua cella prima classe di Curitiba nel 2018. Il suo arcinemico Jair Bolsonaro usa il momento dell’infamia nei propri spot elettorali, ma a poco sta servendo. Così come chiamarlo, “l’ex carcerato”, oppure ladro, a ogni comizio.

Non sono pochi per la verità i brasiliani che la pensano così, l’indice di rifiuto totale per Lula è inchiodato al 35 per cento, secondo i sondaggisti coloro che mai lo voterebbero, per ragione alcuna. Indice altissimo, inabilitante in una elezione normale. Ma quella di domani normale non lo è. E così è assai probabile che la vinca lui, in uno dei più clamorosi ritorni nella storia della politica.

Sempre padre del popolo

Comeback rumoroso, ma tutt’altro che inatteso. Otto anni al governo con buoni risultati, poi una pesante recessione dovuta alle scelte sbagliate della sua pupilla, Dilma Rousseff, due giganteschi scandali di corruzione e infine l’onta di 580 giorni di prigione non sono stati sufficienti a corrodere l’immagine di Lula come unico e insostituibile padre do povo, del popolo, degli ultimi di un paese ancora profondamente ingiusto e diseguale.

È un fenomeno fuori dalla curva del tradizionale populismo latinoamericano, tanto che nessuno così definisce l’ex operaio nato in una famiglia miserabile e arrivato ospite gradito in smoking a Buckingham Palace.

Lula non è un populista – lo ha dimostrato governando e i suoi programmi non hanno questa etichetta – e in fondo non è nemmeno socialista o troppo di sinistra. Anzi, una volta in un eccesso di sincerità lo disse chiaro e tondo, sollevando un vespaio: non sono di sinistra, niente etichette, sono un semplice operaio, un tornitore. Mani libere per poter negoziare e allearsi anche con il diavolo, dovesse servire alla causa.

Resta però di una popolarità inaffondabile, alla base della quale c’è un’intelligenza politica fuori dal comune, e un marketing tutto suo, fusione tra i fatti della sua traiettoria umana e le tecniche di comunicazione più raffinate. Lula, insomma, è uno al quale si può chiedere di mettersi a piangere davanti a una telecamera parlando della madre che ha avuto otto figli vivi e quattro morti appena nati. E lui comincia a piangere per davvero.

Il carcere

Curiosamente, e contro molte attese, i guai giudiziari e i lunghi mesi di una detenzione discutibile non ne hanno fatto un martire, o almeno non è questa l’immagine sulla quale ha basato il suo ritorno. Durante quei 580 giorni, la sinistra brasiliana aveva costruito attorno alla cella il suo reality dell’ingiustizia.

A Lula era stata assegnata una stanza con bagno, cucina e una piccola palestra nella sede della polizia federale a Curitiba. Sotto le sue finestre un presidio permanente di militanti gli urlava buongiorno e buonanotte a ore definite, affinché lui trovasse conforto, e faceva proselitismo per la sua liberazione. La prigione diventa luogo di pellegrinaggio di personalità brasiliane e straniere, e di semplici militanti: così Lula conosce la sociologa Rosangela da Silva, detta Janja. Vedovo da poco, se ne innamora e la sposa alla fine dalla detenzione, e oggi lei è presenza fissa nei comizi della campagna elettorale.

«È indecente che un uomo che ha subìto tre condanne in nove gradi di giudizio sia ancora libero e possa concorrere alla presidenza!», tuona Bolsonaro. «Sono stato dichiarato innocente da tutti e persino dall’Onu, è stata una manovra per togliermi dalla politica e far vincere lui», gli risponde Lula. La questione è talmente spinosa che persino le agenzie di fact checking, esperti che controllano la veridicità delle parole in campagna elettorale, non sono arrivate a una conclusione certa. Lula è innocente, o è solo stato “graziato” dalla Corte suprema? I giuristi si dividono sui tecnicismi della storia.

L’inchiesta

Come strascico della grande inchiesta sul colosso petrolifero Petrobras, la cosiddetta Lava Jato o anche “Mani pulite brasiliana”, montagne di mazzette finite ai partiti, Lula venne arrestato alla fine di tutti i gradi di giudizio di una vicenda controversa.

Un grande costruttore gli aveva promesso e preparato un superattico sul litorale di San Paolo. Ma il rogito non è mai avvenuto, a ragione Lula ha sempre detto: non è mio. I giudici sostengono che era comunque frutto di una mazzetta; la difesa nega e sostiene che tutta la storia si basa sulle dichiarazioni del costruttore in carcere, per ottenere benefici di pena.

Già dall’inizio era apparso chiaro che i giudici non avevano trovato la vera pistola fumante, la prova che Lula fosse al vertice di tutta la razzia di miliardi alla Petrobras, e avessero ripiegato su debolezze personali al termine di una presidenza trionfale, Lula stava accettando alcuni “regali” dagli imprenditori che nella sua epoca si erano arricchiti con le commesse pubbliche. Ma nella fretta di arrivare alla preda più ambita, i giudici di Curitiba commettono una serie di errori e illegalità.

Gli errori

Prima un’operazione di hackeraggio sui cellulari svela che i pm e i giudici avevano lavorato contro Lula di comune accordo, cosa che il codice penale brasiliano, così come il nostro, non permette. Poi, con un comodo ritardo di cinque anni, la Corte suprema di Brasilia decide che quel tribunale non è competente sulla vicenda del superattico e annulla tutto.

Aggiungiamoci la prescrizione, l’età dell’imputato e qualche altro cavillo e Lula si ritrova prima in libertà, poi con i diritti politici intonsi. A quel punto il ritorno nell’agone della politica è scontato. A fianco di Janja e con i muscoli torniti da ore di esercizi nella cella, all’età nella quale i brasiliani sono in pensione da oltre un decennio, riecco Lula.

La campagna del ritorno

A quel punto c’è da costruire il messaggio. I primi sondaggi aiutano parecchio. Lula parte sempre da una base del 25-30 per cento di elettori che lo votano comunque, da oltre 30 anni. L’obiettivo è conquistare gli altri.

Con i suoi strateghi esclude prima il vittimismo: certo, dirà a ogni momento che è stato in carcere ingiustamente, quando attaccato, ma evita la costruzione del martire-eroe. Sa che tanto limpida la faccenda non è, mica è Nelson Mandela. Anche la montagna di follie fatte e proferite da Bolsonaro negli ultimi anni aiutano, ma Lula non ne fa il piatto forte della campagna.

Tutto si basa piuttosto su un assioma, quasi impossibile da scalfire: Brasile, quando c’ero io al governo tutti stavano meglio. Nei dibattiti e nelle interviste Lula sciorina numeri dei suoi tempi, cioè dal 2002 al 2010.

L’economia cresceva, non c’era inflazione, il debito estero era sparito, anzi «prestavo io i soldi al Fondo monetario». Ma è guardando i suoi dritto nella telecamera, o urlando nei comizi, che viene la parte migliore: «Tutti voi mangiavate picanha (uno dei pezzi di carne più pregiati, ndr) e una birra ben gelata, non mancava nulla nemmeno nelle case dei più poveri».

Quando cambia target, è la stessa storia. Anche la classe media stava meglio con lui. Geniale lo scambio con un presentatore di estrema destra, Ratinho, in un canale tv legato a Bolsonaro: «Anche tu stavi meglio ai miei tempi?». E l’altro, imbarazzato: «Eh sì, guadagnavo molto di più». La ricetta Lula è tutta qui, il Brasile lo richiama a Brasilia e torna felice come prima.

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