Una nota congiunta di Washington e Brasilia chiede al governo venezuelano di pubblicare gli atti delle elezioni. Nelle proteste già 13 morti e decine di feriti
Sono i quartieri poveri e operai, tradizionali roccaforti chaviste, a riempire le piazze che chiedono il rispetto del voto e non riconoscono la presunta rielezione di Maduro nelle elezioni di domenica scorsa. Le proteste in tutto il paese e l’abbattimento delle statue di Chavez sembravano il preludio di un cambio di scenario in Venezuela. Ma le cose potrebbero essere molto più complicate.
Il governo ha chiarito la propria posizione verso i manifestanti. «Raduni criminali portati avanti da gruppi fascisti sostenuti dagli imperialisti nordamericani e dai loro alleati, non permetteremo il golpe», ha dichiarato Vladimir Padrino, ministro della Difesa.
Tradotto in numeri: decine di feriti, centinaia di arresti e 13 morti nell’ambito delle proteste, vittime degli scontri tra manifestanti, la gran parte dei quali pacifici e solo alcuni dei quali armati, con le forze di sicurezza e bande di motociclisti pro-Maduro, i colectivos.
Secondo l’opposizione, che ha pubblicato online gli atti dell’81 per cento delle schede, il candidato Gonzalez Urrutia ha vinto le elezioni con 7 milioni di voti, circa 4 milioni in più rispetto a Maduro. Oltre al risultato, l’oggetto della contesa è l’accesso agli atti elettorali, richiesta avanzata da sia dall’opposizione sia dall’estero. «Le elezioni non sono conformi ai parametri di integrità elettorale e non possono essere considerate democratiche», ha dichiarato il Centro Carter, uno dei pochi osservatori che hanno avuto l’opportunità di accompagnare le operazioni di voto.
Nei giorni scorsi, i principali consiglieri per gli affari internazionali dei presidenti Biden e Lula, Jake Sullivan e Celso Amorim, si sono parlati tre volte, per arrivare alla nota congiunta Brasile-Stati Uniti con la richiesta al governo venezuelano di pubblicare rapidamente gli atti elettorali. La presa di posizione di Lula ha un doppio valore.
Lula e il fronte progressista
Da una parte, una dichiarazione congiunta tra le due grandi potenze del nord e sud America (quest’ultima a guida progressista), annacqua l’argomento dell’ingerenza antidemocratica di Washington in America Latina. Argomento storicamente fondato, ma non imputabile all’amministrazione Biden che ha supportato Brasile e il Guatemala contro i recenti tentativi di autogolpe.
Dall’altra Lula non può tacere sulle irregolarità del voto in Venezuela senza che questo silenzio suoni ipocrita quando poi denuncia l’ex presidente Bolsonaro e il suo tentativo di golpe in Brasile. Il problema per Lula risiede nella sua famiglia politica, o almeno in una parte di essa, che ha festeggiato l’elezione di Maduro. Non solo i governi di Cuba e Nicaragua, ma anche una parte del Partido de Trabalbhadroes in Brasile.
Sostengono Maduro e accusano l’opposizione venezuelana di appoggiarsi alle destre estreme internazionali. Accuse fondate, ma che ignorano la pluralità dell’opposizione venezuelana e trattano il governo come un perenne adolescente, mai responsabile delle sue azioni. Come se il chavismo non governasse da 25 anni un paese dal quale un quarto della popolazione se n’è andato, con iperinflazione e le cui elezioni «non possono essere considerate democratiche».
Lula, insieme ai presidenti di Cile, Colombia e Messico, guida il fronte progressista latinoamericano per convincere Maduro a pubblicare i risultati completi. Potrebbe farlo entro lunedì, scrive la Cnn. E dopo?
Con le prove di una frode elettorale, potrebbero aumentare le proteste interne e le pressioni internazionali, possibili l’adozione di ulteriori sanzioni e anche un procedimento della Corte penale internazionale per possibili crimini contro l’umanità. Ciò potrebbe far peggiorare la situazione interna, ma non è detto che abbia effetti reali sulla stabilità del governo.
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