La premier incontrerà le massime istituzioni del Paese dei cedri. Obiettivo: mettere al sicuro i soldati italiani della missione Unifil
Nel Paese dei cedri in guerra arriva Meloni, nella doppia veste di guida politica di un paese, l’Italia, che ha la presidenza di turno del G7 e, al contempo, uno dei contingenti più numerosi nell’Unifil. Missione, questa, concepita nel 2006, dopo la guerra dei Trentaquattro giorni, in un diverso quadro politico e militare: con Prodi a Palazzo Chigi e D’Alema alla Farnesina, attivi protagonisti nel suo varo.
La missione di Meloni
Che cosa proporrà Meloni ai suoi interlocutori libanesi? Al premier Mikati, formale capo di un debole governo “provvisorio”, del quale Hezbollah è comunque un pilastro, e al presidente del Parlamento Berri, storico leader di Amal, fazione della comunità sciita che non si riconosce nel Partito di Dio ma gli è alleata, con il quale è ipotizzabile Meloni faccia valutazioni che Berri farà senz’altro conoscere al movimento islamista?
Escluso, a meno che gli eventi precipitino in maniera incontrollabile, il ritiro del contingente italiano, ipoteticamente possibile su base volontaria, così come quello dell’intera missione Unifil dal Libano, Meloni metterà sul piatto una proposta che, per avere qualche probabilità di riuscita, necessita di passaggi non semplici, complicati dalla situazione sul terreno, dall’atteggiamento delle parti in causa, dal teso contesto internazionale.
Uno scambio politico sul quale c’è anche il consenso di altri paesi europei – a partire dalla Francia, storicamente legata al Libano, che nel frattempo sta muovendo le sue pedine nel Golfo, nell’intento di coinvolgere sauditi e Qatar nella riorganizzazione delle fragili forze armate libanesi – sintetizzabile nella formula “Cessate il fuoco contro mutamento delle regole d’ingaggio”. Un piano che vedrebbe la sospensione delle ostilità tra Israele e Hezbollah, il ritiro oltre il Litani delle milizie sciite e quello dietro la Linea Blu dell’Idf. Oltre che un rafforzamento del contingente Unifil, destinato a presidiare il sud libanese con regole d’ingaggio che consentano ai caschi blu di operare senza dover dipendere dalla presenza dell’ormai impalpabile esercito libanese, paralizzato da dinamiche di un sistema politico ancorato a un confessionalismo istituzionale basato su equilibri demografici non più rispondenti alla realtà e dalla grave crisi economica. Mutamento delle regole d’ingaggio che – e questo è l’altro non semplice corno del problema – può essere deciso solo dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.
Prospettiva, quella sostenuta in primo luogo da Italia e Francia, che necessita della convergenza d’interessi tra una molteplicità di attori che oggi non sembra all’orizzonte, o sui quali gravano riserve di ogni tipo. A partire dai passi che dovrebbero essere compiuti dalle parti direttamente coinvolte nel conflitto. È pensabile che Israele accetti un cessate il fuoco che gli impedisca di realizzare quel controllo diretto dei territori adiacenti alle linee di demarcazione che, dopo il 7 ottobre, ispirano la sua dottrina strategica, basata sul principio “Mai più nemici ostili ai confini”, dottrina che, in nome del comune obiettivo di una Grande Israele perseguito, pur in diversa ottica dalle destre nazionaliste e da quelle nazional-religiose messianiche, presuppone una fascia di sicurezza che in Libano dovrebbe estendersi sino al Litani e nella Striscia almeno sino al Wadi Gaza?
Israele ed Hezbollah
Difficile, dal momento che Netanyahu e le forze che lo sostengono ritengono che la guerra presenti un’occasione irripetibile per mettere fuori gioco le organizzazioni islamiste legate all’Iran almeno sul piano militare: quello politico e ideologico è altra questione per formazioni come Hezbollah e Hamas che sono anche un movimento religioso, un partito politico con largo consenso, un embrione di stato sociale. Un cessate il fuoco ora, sostengono i falchi delle due destre, solleticati dalla prospettiva del mutamento unilaterale dei confini internazionalmente riconosciuti, consentirebbe a Hezbollah di riorganizzarsi e, come già accaduto con lo svuotamento della risoluzione 1701, di minacciare nuovamente, in un arco di tempo relativamente breve, l’Alta Galilea. Anche perché, come si è visto in questi giorni segnati da infuocate polemiche nei confronti del Palazzo di Vetro, Israele non si fida delle Nazioni unite.
E il Partito di Dio come valuta l’ipotesi del cessate il fuoco e del meno digeribile corollario del ritiro dal sud del Libano? Di certo ha estremo bisogno di una tregua: la decapitazione della sua leadership, che ha visto cadere Nasrallah, i principali membri del Consiglio politico del movimento, i suoi vertici militari, lo ha fortemente indebolito.
Le difficoltà nelle comunicazioni, seguite alla vicenda “cerca persone” e alle eliminazioni mirate che hanno intaccato la catena di comando, e segnate dal palese livello di infiltrazione del Mossad nell’organizzazione, rendono complicato coordinare la resistenza armata all’Idf. Anche se la martirologia sciita, espressione di una concezione della religione che nella lotta contro “l’ingiustizia” ha il suo tratto fondativo, consente di cercare di colmare, con il sacrificio in combattimento, almeno in scontri ravvicinati, l’indubbia inferiorità militare nei confronti del nemico.
La scelta israeliana di bombardare Beirut e altre città popolate dalla comunità sciita, la minaccia di ridurre il Libano come Gaza, in un contesto internazionale paralizzato dall’attesa per le elezioni americane e dallo scontro tra Washington e Mosca, fa poi temere Hezbollah, privo della guida carismatica di Nasrallah, che resistere a oltranza possa essere controproducente. Da qui la cauta apertura a un cessate il fuoco che comporti, inevitabilmente, il ritiro dal sud. Salvare l’organizzazione, risparmiare alla popolazione sciita un ulteriore coinvolgimento nella guerra, prospettiva che si tradurrebbe in un’inevitabile perdita di consenso, sembra un imperativo difficilmente aggirabile per il Partito di Dio.
Ma se vi sarà da combattere aspramente lo farà. Molto dipenderà dalle dinamiche regionali del conflitto. Se l’annunciata operazione di rappresaglia israeliana contro l’Iran minacciasse la stabilità del regime, difficilmente Teheran darebbe il consenso al raffreddamento delle tensioni sul fronte libanese.
Insomma, tutto si tiene: sulle sponde del Mediterraneo come in riva all’Hudson. La proposta “Tregua contro ritiro” in salsa libanese necessita, per giungere a buon fine, di un passaggio al Consiglio di sicurezza, il solo che può cambiare le regole d’ingaggio della missione Unifil. Il che presuppone, oltre che un’effettiva pressione americana su Israele, un non semplice accordo tra Usa e Russia. Non basta, dunque, portare un simile piano al tavolo del G7 dei ministri della Difesa a Napoli. Bisogna passare anche per Mosca. I due conflitti, quello mediorientale e quello ucraino, si intrecciano, mostrando il volto bifronte di un ordine mondiale ancora alla ricerca di un equilibrio o di un dominio.
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