«È l’inferno in terra». Lo strato di polvere che si deposita sulle piante impedisce a chi vive vicino alla miniera di carbone a cielo aperto di Moatize, in Mozambico, di coltivare o essiccare il mais e altri alimenti di sussistenza. L’acqua è limitata, in molti non possono più accedere alle fonti perché, per servire la miniera, alcuni fiumi sono stati deviati, altri inquinati o semplicemente si sono prosciugati.

I produttori locali di mattoni, gli oleiros, hanno dovuto cedere le loro terre e non hanno più l’ingrediente essenziale per produrre i mattoni di argilla. Così come manca l’acqua per abbeverare gli animali. E la poca che esce dai rubinetti è «nera come il carbone», altamente inquinata.

Erika Mendes dell’organizzazione mozambicana Justiça Ambiental (JA!) racconta le condizioni in cui vivono circa 1.300 famiglie nei dintorni della miniera nella provincia di Tete, considerata la quinta più grande riserva al mondo di carbone.

Un materiale ancora molto richiesto, nonostante la transizione ecologica, per due motivi: perché la transizione non sembra andare così rapidamente come sperato, e perché è utile per la produzione dell’acciaio e quindi, al tempo del riarmo, è essenziale per l’industria delle armi.

Moatize produce 22 milioni di tonnellate di carbone grezzo all’anno. Tra i mercati principali, l’Europa e l’India. Una ricchezza per il territorio che dalla sua inaugurazione, nel 2011, ha fatto gli interessi di pochi e non della popolazione locale: «Credevamo (ciecamente) che ci avrebbe portato solo più benefici. Ora viviamo un’amara frustrazione», si legge in una lettera dei residenti, inviata alla società che gestisce la miniera. «Le pratiche minerarie non sono compatibili con alcuna esperienza umana», continuano gli abitanti.

«L’inquinamento nell’ultimo anno ha raggiunto livelli altissimi, a causa di quella che sembra essere la decisione di Vulcan di tagliare costi e misure di precauzione ambientale, e per la siccità. L’assenza di pioggia ha permesso alle particelle di carbone di andare più lontano», spiega Mendes.

Moatize è gestita da Vulcan Mozambique, che nel 2021 l’ha acquistata per 270 milioni di dollari dalla brasiliana Vale.

Diritti dei lavoratori

Foto di Simão Sebastião

«Sono piuttosto scettica nel dire che Vale era migliore di Vulcan, ha fatto uno sforzo maggiore per dare una parvenza di green alla propria immagine, ma alla fine l’impatto è pesante in ogni caso», dice Mendes, precisando però che la politica di taglio dei costi portata avanti dalla seconda ha contribuito a peggiorare ancor di più le condizioni di vita e di lavoro.

«Molti operai hanno perso il lavoro e sono stati ridotti gli stipendi e le tutele, come l’assicurazione sanitaria», spiega Simão Sebastião, una laurea in ingegneria ambientale e membro dell’associazione di supporto legale delle comunità in Mozambico. Sebastião segnala una grande difficoltà a intercettare i lavoratori: «Non sono autorizzati a parlare con nessuno».

La stampa locale, Zitamar News, che ha parlato con alcuni operai sotto anonimato, scrive di «sette incidenti nell’arco di un mese», «almeno cinque lavoratori feriti», e «un nuovo schema di turni punitivo» che «non consente ai lavoratori di riposare a sufficienza tra i turni». I minatori «di Vulcan – secondo quanto risulta a Zitamar – devono vivere in loco e non possono tornare a casa per diversi giorni».

I residenti

Foto di Simão Sebastião

Tra il 2009 e il 2010, Vale aveva reinsediato forzatamente oltre 1.300 famiglie per aprire la miniera di Moatize. Da tempo la società civile denuncia alloggi non sicuri, terreni inadatti all’agricoltura di sussistenza per l’inquinamento del suolo e il mancato accesso all’acqua. Si aggiunge la repressione delle proteste da parte della polizia, che – emerge da un’inchiesta di JA! – protegge gli interessi della società mineraria: si parla di agguati, arresti, pestaggi, uso di proiettili di gomma e gas lacrimogeni sui cittadini.

Ogni volta che viene fatta esplodere la dinamite nella miniera, le crepe nelle case dei quartieri limitrofi si allargano. Alcune sono addirittura crollate. I livelli di inquinamento dell’acqua, secondo analisi effettuate da JA! nel corso degli anni, sono superiori ai limiti nazionali e dell’Organizzazione mondiale della sanità.

Problemi respiratori, alla vista, tosse acuta e tubercolosi, sono le patologie più diffuse, ma «molti centri e medici non osano associare le malattie al carbone», segnala Mendes, «perché sono pagati, intimiditi o minacciati per evitare di fornire la diagnosi giusta. “È un’influenza”, dicono».

Dietro la «deresponsabilizzazione di Vulcan», secondo il comitato dei residenti del distretto, si nascondono le amministrazioni locali, che in assenza «di informazioni e misure concrete» contro l’inquinamento prodotto dalle attività della miniera dà «luogo a comportamenti criminali continuativi che si protraggono per anni», si legge nella lettera di settembre 2024 in cui la commissione denuncia l’inerzia e «il silenzio» delle istituzioni.

Sentenza violata

Foto di Simão Sebastião

Proprio gli elevati livelli di inquinamento avevano portato, il 19 dicembre 2024, il tribunale amministrativo della provincia di Tete a imporre a Vulcan la cessazione dell’estrazione mineraria per 90 giorni, nelle sezioni 4 e 6, per violazione dei diritti fondamentali. Una sentenza rispettata dalla società solo per pochi giorni, «dimostrando – scrive JA! - che la salute dei residenti» e «l’ambiente non possono danneggiare i profitti». Sono scaduti i tre mesi e la pronuncia è rimasta ignorata. «Purtroppo quello che c’è scritto sulla carta, non viene applicato», commenta Sebastião.

Esattamente un giorno dopo la sentenza, i rappresentanti di Vulcan, incontrando l’Ombudsman, hanno affermato che tra le priorità dell’azienda c’è «la politica “zero danni all’ambiente”». Ma i risultati del difensore civico dicono il contrario: riconosce l’inquinamento ambientale; considera Vulcan «la società che inquina di più» e che «produce detonazioni rumorose», a seguito delle quali si osservano «funghi di polvere con particolato, che vagano sul distretto»; e, inoltre, ritiene che «i problemi respiratori potrebbero essere associati all’inquinamento causato dalle attività minerarie».

Dietro Vulcan

Foto di Simão Sebastião

La miniera di Moatize è uno dei principali giacimenti di carbone di Vulcan. Secondo il sito della società, con una concessione mineraria che si estende a circa 25mila ettari, si stimano 2,3 miliardi di tonnellate di riserve.

Vulcan Mozambique non è una piccola società che opera solo in quell’area, ma è legata al colosso dell’acciaio indiano, che in Italia non è sconosciuto: Jindal Steel International. Era uno degli attori in corsa per la gestione di Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva di Taranto, su cui ha avuto la meglio l’azera Baku Steel.

Ma la tela societaria è complessa: l’organizzazione Aria ha ricostruito il legame tra il colosso di proprietà di Naveen Jindal, cioè Jindal Steel and Power (Jsp), e la società che gestisce la miniera. Vulcan Mozambique è interamente controllata da Vulcan International. Non ci sono registri pubblici, ma ci sono elementi che le collegano alla Jsp: nel rapporto annuale del colosso dell’acciaio Vulcan Mozambique figura come una «parte collegata» con cui sono intercorse «transazioni materiali»; e il sito di Vulcan nomina come presidente Naveen Jindal. Le due società non hanno risposto alle richieste di commento via mail inviate da Domani.

E così la ricchezza di questa riserva finisce nelle mani della multinazionale di quella che Forbes ha definito la terza famiglia più ricca dell’India, mentre a pagarne il prezzo sono gli abitanti della provincia di Tete. Fino al 2010 il settore minerario contribuiva all’1 per cento del Pil del Mozambico, negli anni successivi al 7 per cento circa. Ma, sottolinea un rapporto dell’Observador Rural, «questo “sviluppo” non è stato inclusivo, una grande fetta della popolazione del Mozambico vive ancora in estrema povertà».

Anche l’Europa, tra i principali mercati per il carbone di Moatize, partecipa a questo sfruttamento. E non accenna a fermarsi: la spesa militare aumenta e per l’industria bellica l’acciaio è indispensabile.

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