Il dialogo si sposta al Cairo, ma Israele e Hamas sono scettici sulla bozza di accordo. Aumenta la preoccupazione per le risorse necessarie a una guerra su più fronti
Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha spinto per un accordo per il cessate il fuoco a Gaza con la preziosa mediazione dell’Egitto e del Qatar, ma i funzionari israeliani e di Hamas vedono poche possibilità di ottenere una vera svolta nel conflitto. Così, mentre gli Stati Uniti continuano ad esprimere ottimismo, entrambe le parti hanno affermato di avere ancora grossi disaccordi tra di loro. Il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, ha dichiarato a Sky News che giovedì e venerdì si terranno al Cairo i negoziati per un cessate il fuoco a Gaza.
È interessante notare quanto trapelato in Israele sui reali obiettivi che il governo Netanyahu vuole ottenere dai negoziati. Secondo due associazioni di familiari di ostaggi e soldati morti che il 20 agosto hanno incontrato Netanyahu, il premier avrebbe affermato: «Non sono sicuro che ci sarà un accordo, ma se ci sarà, proteggerà gli interessi che ripeto più e più volte, sono la preservazione delle risorse strategiche di Israele».
Il primo ministro israeliano – hanno riferito le associazioni – ha detto che se l'accordo dovesse andare in porto, dopo 42 giorni i combattimenti a Gaza riprenderanno «fino all'eliminazione di Hamas, anche mentre vengono negoziati i passi successivi». Insomma: torniamo alla considerazione della tregua strumentale e temporanea per ottenere il rilascio degli ostaggi riamasti in vita mentre Hamas chiede un cessate il fuoco duraturo.
Ma c’è di più. Israele «non si ritirerà dal corridoio di Filadelfia e da quello di Netazrim nonostante le enormi pressioni per farlo». I due corridoi separano il primo Gaza dal confine egiziano e il secondo divide in due la Striscia, impedendo di passare dal sud al nord di Gaza. Lo avrebbe dichiarato Netanyahu, sempre nell’incontro con le famiglie degli ostaggi a Gaza. «Sono risorse strategiche», ha aggiunto, dicendo che di queste intenzioni ha informato il segretario di Stato Blinken.
Ma anche in questo caso le distanze tra le parti sono eccessive. Infatti, il ritiro completo delle truppe israeliane dal corridoio Filadelfia, tra Gaza e l'Egitto, è tra le condizioni messe da Hamas sul tavolo dei negoziati per un accordo sulla tregua e il rilascio degli ostaggi. Anche sul fronte interno ci sono dubbi sulle reali volontà di Netanyahu di raggiungere un accordo duraturo. Un appello a Netanyahu, a cessare i tentativi di «sabotare» l'accordo sul cessate il fuoco ed il rilascio degli ostaggi a Gaza è stato lanciato dal leader dell'opposizione in Israele, Yair Lapid, ex membro del governo di unità nazionale. «Basta con i briefing, basta con i tweet», ha affermato Lapid, secondo cui «tutti i tentativi di Netanyahu di sabotare i negoziati dovrebbero cessare. Un accordo ora, prima che muoiano tutti».
La spesa militare
E l’Iran, il convitato di pietra di questa guerra che si protrae da dieci mesi, che intenzioni ha sul fronte della rappresaglia? Il portavoce del Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica ha avvertito che il periodo di attesa per la rappresaglia dell'Iran contro Israele per l'uccisione a Teheran del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, «potrebbe essere lungo».
Insomma, una guerra di logoramento piuttosto che l’escalation regionale. Ma quanto può resistere un’economia come quella israeliana, altamente tecnologica, in una situazione di conflitto permanente seppure a bassa intensità? Le tre agenzie di rating americane hanno emesso il loro verdetto riducendo di un “notch” l’affidabilità del debito emesso da Tel Aviv.
Poca cosa ma un segnale da non sottovalutare per la buona salute di un’economia globalizzata e aperta ai commerci internazionali. L’ultima a operare è stata Fitch che ha deciso il downgrade di Israele, e quindi ora le tre agenzie sono tutte in linea, con lo stesso giudizio, un “notch” sotto rispetto a 9 mesi fa. La parte di spesa militare è considerata insostenibile ed è la ragione principale del declassamento. Possibile? La spesa militare israeliana secondo gli ultimi dati disponibili era al minimo nel 2022 pari al 4,5 per cento del Pil, che (seppur altissima in termini relativi al Pil rispetto agli altri paesi come l’Italia che non raggiunge nemmeno il fatidico 2 per cento voluto dalla Nato), era finalmente scesa da livelli medi superiori al 20 per cento negli anni Settanta e superiori al 15 per cento negli anni Ottanta. La lezione che la dirigenza israeliana aveva appreso è semplice: la guerra drena risorse altrimenti utili ad altri investimenti perché l’economia è la scienza della scarsità e non dell’abbondanza.
Non a caso dal 1994 in poi Israele beneficiò del cosiddetto «dividendo della pace», che significava la spesa per la difesa in discesa in favore degli investimenti che permisero lo sviluppo tecnologico del paese rendendolo una «Silicon Valley mediorientale». E forse saranno proprio i timori finanziari e la tenuta dell’economia con troppe spese militari fuori controllo e troppi uomini richiamati per troppo tempo alle armi a costringere “Bibi”, come viene comunemente soprannominato il premier più longevo di Israele, al tavolo delle trattative per trovare un accordo che dia stabilità al paese e prospettive economiche sostenibili.
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