Prima l’intimazione della Corte suprema al governo di dirimere la vexata quaestio della leva militare, da cui a oggi sono esentati gli studenti delle yeshivòt (scuole rabbiniche), che vivono di sussidi statali per avere il tempo di studiare la Torah. 

Secondo l’antica tradizione di «non anticipare la fine» prevista dalle dottrine cabaliste antisioniste, che intimano di dedicarsi allo studio per farsi trovare preparati all’arrivo del messia, evitando qualunque azione politica che possa accelerare impropriamente i tempi.

Istanze rappresentate nell’attuale governo dal partito Yahadut HaTorah e dal sefardita Shas, che ha già dovuto subire l’onta di vedere cadere dalle cariche governative il proprio leader Aryeh Deri, giudicato, sempre dalla Corte, inadeguato a ricoprire i ruoli concessagli da Benjamin Netanyahu.

Lo scontro con l’esercito

Ora anche il conflitto con l’esercito, che ha deciso una pausa umanitaria giornaliera di qualche ora per implementare l’ingresso degli aiuti umanitari, secondo i desiderata dell’alleato americano, dei paesi arabi, con cui già si discute il Dopoguerra, e della Corte penale internazionale guidata da Karim Khan.

Inutile girarci intorno, in Israele si è riaperto il conflitto istituzionale, già abbondantemente anticipato dalla ripresa delle manifestazioni antigovernative, che ha visto le antiche parti contrapposte ricoaugularsi attorno al tema degli ostaggi e della responsabilità per la guerra.

Cade così la coltre retorica che aveva indicato il 7 ottobre come momento di ricostituzione dell’unità nazionale perduta durante i mesi caldissimi della riforma giudiziaria. Così come non era vero che il conflitto sociale precedente, comprese manifestazioni antigovernative dei vertici della polizia nazionale e rifiuto dei riservisti di rispondere alla chiamata dello stato, comportasse una minaccia alla difesa del paese, così come era una narrazione superficiale e consolante l’idea che l’inevitabile compattezza, tipica dello stato ebraico nei momenti d’emergenza, sulla necessità di una risposta militare a Hamas riparasse le fratture che, in realtà, rappresentano dati culturali profondi aperti non da anni, non da decenni, ma da secoli, nascondendo un mai totalmente risolto rapporto fra l’ebraismo e la modernità.

Due parti inconciliabili

Difficoltà trasferitesi dentro i confini del nuovo stato fondato nel 1948. In Israele si contrappongono due parti che appaiono inconciliabili: da un lato una galassia tradizionalista-ortodossa, in cui gioca un ruolo sempre più rilevante una componente messianica, e una legata agli ideali liberali e ai movimenti di emancipazione europei, che la stessa cultura ebraica ha contribuito a fondare e sviluppare.

Non a caso c’è una tesi filosofica per cui la modernità è ebraica, tanti sono gli autori e le autrici ebrei ed ebree che hanno plasmato l’immaginario culturale fra ‘800 e ‘900, nel momento in cui l’ebraismo è uscito dai ghetti.

Tesi ancor più palese nell’anno kafkiano che stiamo vivendo. In tutto questo scenario assai frammentato, si inserisce la cospicua minoranza araba, che, anche l’attuale conflitto lo sta dimostrando, ha già deciso che la propria convenienza sia stare con i due piedi ben piantati nei confini dello stato ebraico, che le garantisce standard di vita impensabili in qualunque paese arabo.

Senza, purtroppo, che questa scelta si traduca in un’attiva partecipazione politica, seppur la partecipazione al precedente governo della lista araba Ra’am non è dato trascurabile. Mossa miope, senz’altro alimentata dal clima di diffidenza che oggi circonda gli arabi israeliani, perché sarebbe la fetta di popolazione che più risentirebbe di una svolta tradizionalista e autoritaria del paese.

La caduta di Netanyahu

La riapertura del conflitto fra i poteri dello Stato è ulteriore elemento per augurarsi la caduta di Netanyahu, che è stato colui che più di ogni altro ha alimentato la divisione interna a fini elettorali, già a partire dall’opposizione a Oslo.

Ma Bibi, anche alle prese con turbolenze nella maggioranza, risorge sempre quando sembra spalle al muro e l’aumento delle tensioni al nord non fanno ben sperare sul modo in cui vuole svincolarsi dall’ennesima morsa. Anche se personalmente non credo a un estendersi del conflitto, si rischia di seguire il classico spartito del, tanto tuonò che piovve.

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